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La battaglia per Twitter

Eugenio Cau

Con il fondo Elliott interessato a cacciarlo, il ceo Jack Dorsey lotta per la sopravvivenza

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Milano. Da tre giorni le sorti di Twitter sono incerte. Secondo le indiscrezioni dei media, in pochi mesi il fondo Elliott ha comprato circa il quattro per cento del social network per una cifra che si aggira attorno al miliardo di dollari, è diventato uno dei dieci principali azionisti di Twitter e ha cominciato a fare quello che spesso fa il fondo Elliott quando entra in un’azienda in difficoltà: usare la proprie risorse e la propria influenza per modificare le pratiche di business dell’azienda ed eventualmente cacciarne il ceo. Elliott ha già avanzato le candidature di quattro nuovi membri del consiglio di amministrazione prima della scadenza di domenica per la loro presentazione. Il cda di Twitter è composto da otto membri, e ne vengono rinnovati tre ogni anno, per cui anche se Elliott riuscisse a ottenere tutti e tre i nuovi seggi non avrebbe la maggioranza in consiglio. Ma anche se ufficialmente il fondo guidato da Paul Singer sta conducendo “colloqui costruttivi” con Twitter, secondo le indiscrezioni dei media americani in realtà sta facendo pressioni per cacciare il ceo Jack Dorsey.

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Milano. Da tre giorni le sorti di Twitter sono incerte. Secondo le indiscrezioni dei media, in pochi mesi il fondo Elliott ha comprato circa il quattro per cento del social network per una cifra che si aggira attorno al miliardo di dollari, è diventato uno dei dieci principali azionisti di Twitter e ha cominciato a fare quello che spesso fa il fondo Elliott quando entra in un’azienda in difficoltà: usare la proprie risorse e la propria influenza per modificare le pratiche di business dell’azienda ed eventualmente cacciarne il ceo. Elliott ha già avanzato le candidature di quattro nuovi membri del consiglio di amministrazione prima della scadenza di domenica per la loro presentazione. Il cda di Twitter è composto da otto membri, e ne vengono rinnovati tre ogni anno, per cui anche se Elliott riuscisse a ottenere tutti e tre i nuovi seggi non avrebbe la maggioranza in consiglio. Ma anche se ufficialmente il fondo guidato da Paul Singer sta conducendo “colloqui costruttivi” con Twitter, secondo le indiscrezioni dei media americani in realtà sta facendo pressioni per cacciare il ceo Jack Dorsey.

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Le ragioni per cacciare Dorsey sono due. La prima è che la sua prestazione come ceo è stata decisamente deludente: da quando ha assunto il ruolo nel 2015 (per la seconda volta, poi ci torniamo), il titolo in Borsa di Twitter ha perso complessivamente il 6,2 per cento in cinque anni. Nello stesso periodo, Facebook è cresciuto del 121 per cento. Twitter non è riuscito a innovare e ha perfino rinunciato ad alcuni prodotti promettenti, come per esempio Vine, che era TikTok prima di TikTok ma che Dorsey ha deciso inopinatamente di chiudere nel 2017. La seconda ragione è che Dorsey è un ceo part time e a volte disinteressato. Dorsey è ceo anche di un’altra azienda, che si chiama Square e fa pagamenti digitali, e in cui ha un coinvolgimento finanziario personale molto più elevato. Inoltre Dorsey ha infiniti interessi che divergono dalla dedizione assoluta che richiede la guida di un’azienda miliardaria: qualche mese fa ha annunciato che passerà sei mesi del 2020 in Africa per essere testimone della rivoluzione fintech del continente (dunque per fare ricerca per Square), e questo ha mandato un brivido lungo la schiena degli azionisti di Twitter.

 

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E dunque Elliott non ha tutti i torti quando lascia intendere che Dorsey è un ceo poco produttivo, e delle tante battaglie combattute dal fondo attivista questa sembra una delle più giustificate (anche se di recente le cose per Twitter sono andate meglio, negli ultimi due anni ha generato utili e da qualche trimestre i suoi utenti crescere lievemente, dopo anni di stagnazione).

 

Ma Jack Dorsey non è un ceo qualunque: ha cofondato l’azienda 13 anni fa ed è uno degli uomini più famosi della Silicon Valley, luogo dove vige il “culto del fondatore”, cioè l’idea che chi ha creato l’azienda abbia un mandato divino per guidarla al successo, come avvenuto con Steve Jobs, che fu cacciato e poi si riprese il suo regno ad Apple, e Mark Zuckerberg. Il fondatore/ceo è una figura mitologica e rispettata, e non è un caso che la Silicon Valley si sia sollevata per difendere il fondatore, che è stato ceo in un primo periodo tra il 2006 e il 2008, ma che fu cacciato perché, secondo un libro scritto qualche anno fa dal giornalista Nick Bilton (“Hatching Twitter”), Dorsey era troppo facilmente distratto da altre attività, come lo yoga. Recuperò la sua posizione nel 2015, e da allora la sua figura pubblica è sempre stata identificata molto chiaramente con quella di Twitter. I dipendenti dell’azienda in questi giorni hanno espresso sostegno per Dorsey, con l’hashtag #WeBackJack, e anche Elon Musk, che oltre a essere il ceo di Tesla e di altre imprese è un utente compulsivo del social, ha twittato che sostiene Dorsey perché “ha un cuore buono”, dove la parola cuore è espressa con una emoji.

 

Ma ci sono fondatori e fondatori. Alcuni hanno lavorato a proteggere il proprio regno e altri non ci sono riusciti. Su Bloomberg Matt Levine fa il paragone tra Twitter e Snapchat: mentre il primo ha risultati mediamente positivi, anche se non esaltanti, Snapchat va malissimo da anni. Non ha mai generato un utile e gli utenti sono stagnanti. Eppure nessuno si sognerebbe di rimuovere il fondatore/ceo Evan Spiegel, per una semplice ragione: quando Snap si è quotato in Borsa, Evan Spiegel ha fatto in modo che le sue azioni (si chiamano “dual-class voting stock”) avessero più potere di voto di quelle di chiunque altro. Chi compra azioni di Snap compra una quota nella compagnia, ma non compra potere decisionale: le azioni semplici non danno voce in capitolo, e Spiegel è un assolutista illuminato. Lo stesso vale per Zuckerberg a Facebook e per Larry Page e Sergey Brin a Google (i due hanno abbandonato ogni ruolo operativo nell’azienda, ma ne sono ancora padroni totali). Questo tipo di espedienti serve proprio a proteggersi dalla possibilità che finanzieri scontenti decidano di disarcionare il fondatore visionario dell’azienda tech. Dorsey non ha avuto questa possibilità: quando Twitter si è quotato in Borsa, nel 2013, lui non era ceo e non poteva decidere che tipo di azioni gli sarebbero spettate. Così ora si trova a lottare per la sopravvivenza contro uno dei fondi più potenti di Wall Street.

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