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L'evento del foglio a san siro

Marotta Parade. L’ad dell’Inter ci spiega come si fa a vincere. Non è solo calcio

Maurizio Crippa

La coesione del gruppo, il fattore umano, il senso di appartenenza. I segreti dietro il raggiungimento della seconda stella per i nerazzurri. Intervista

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E venne il giorno della Marotta Parade. No, non della Marotta League, quella è una scemenza per i rosiconi. No, non la Victory Parade della squadra nerazzurra attesa domenica con il pullman in città. Solo e semplicemente il giorno della Marotta Parade, una bella chiacchierata senza necessità di passerella: pacata, amichevole, sincera. Come ormai tradizione all’evento del Foglio a San Siro, la giornata dedicata a parlare e raccontare lo sport, ieri al Meazza. Aria di festa, “il fresco campione d’Italia” del resto qui è di casa, e di applausi ne ha sentiti, in questi giorni. “Quanti messaggi ha ricevuto?”. “Diciamo che ne ho ancora milleduecento cui devo rispondere, e ci tengo a farlo personalmente”. Il Meazza è casa di Inter e Milan, ieri c’era anche il nipote del mitico Peppino, che del resto giocò in entrambe le squadre di Milano, Federico Jaselli Meazza, a spruzzare profumo di storia e speranze per lo stadio del futuro. Al mattino c’era stato anche Paolo Scaroni, presidente di The Other Place, un po’ meno raggiante del Beppe Marotta (“Ci piacerebbe ogni tanto vincere con l’Inter, abbiamo perso troppe partite di fila”), ma ieri non era giorno per parlare di stadi. E il calcio è un’attitudine sincera. “Quando vi siete resi conto che poteva essere l’anno vincente?”, gli chiede Umberto Zapelloni, anchorman e padrone di casa per il Foglio Sportivo.

“A inizio stagione”, la risposta di Beppe Marotta senza nascondersi: “Quando abbiamo capito che i nuovi arrivati – ben dodici giocatori – dal punto di vista umano avevano le caratteristiche giuste, potevano diventare non solo parte di una squadra ma un vero gruppo”. L’elemento umano, che vale tanto quanto la tecnica, nel calcio come anche in tutti gli altri sport: lo hanno sottolineato in tanti ieri, da Julio Velasco ad Aziz Abbes Mouhiidine, il pugile che rappresenterà l’Italia alle Olimpiadi di Parigi. E poi la pazienza e la competenza, ovvero il metodo Inzaghi: “Lo abbiamo scelto tre anni fa senza esitazioni, ha dimostrato il suo valore, ha dimostrato di sapere gestire le tensioni e le critiche”. C’è quello scudetto perso… “Si può sempre perdere, nello sport, il vero errore è quello di non sapere attendere: per giudicare un percorso ci vogliono quattro, cinque anni”. La finale di Champions persa lo scorso anno? Una lezione di vita: “Bisogna imparare a essere più ambiziosi, ma non arroganti”.

Celebrare la vittoria è cosa buona e giusta, ma lo scudetto della seconda stella vinto di gran carriera ha anche altro da dire, e non solo per i tifosi dell’Inter. Anche perché quello vinto nel derby di lunedì scorso è il decimo in carriera per Marotta, la sua personale stella: “I miei scudetti preferiti? Sono sempre i primi: il primo con Antonio Conte alla Juventus, e il primo all’Inter sempre con Conte. Anche se ovviamente questo delle due stelle è un’impresa speciale”. C’è qualcosa d’altro su cui è interessante ragionare con l’ad dell’Inter, per chi ha a cuore lo sviluppo dello sport. Lui l’ha chiamato “Modello Inter”, un esempio cui guardare. Non si sente un “re taumaturgo”, uno che fa miracoli: “Preferisco il detto lombardo Ofelè fa el to mesté, quello che conta è la competenza. E troppo spesso non la si rispetta, anche nel mondo del calcio”. Dal palco del Foglio lo spiega: la società solida e ben guidata, l’importanza dello zoccolo duro di giocatori italiani… “Senza una società forte non si vince. Non è solo questione economica, ma di programmazione, di saper fare le scelte e poi di sapere supportare il gruppo, farlo crescere, dare fiducia e chiedere responsabilità. Così nasce una squadra vincente”. E poi? C’entra il senso di appartenenza? “C’è l’importanza speciale di giocare in casa, col proprio pubblico, con 70 mila spettatori a San Siro un giocatore corre sul prato, ma è come se fosse sollevato venti centimetri sopra l’erba, sospinto dai tifosi”. Un’idea quasi romantica dello sport, quasi una sorpresa in bocca a un manager di famoso pragmatismo. Ma non è così.

La mattina sul palco si erano alternati il presidente della Figc Gabriele Gravina e quello della Lega serie A, Lorenzo Casini. Scintille che hanno fatto il giro delle agenzie, la divergenza di vedute sul “modello calcio” del futuro è più che netta, con la Lega che chiede di contare di più in un sistema che penalizza le esigenze di società professionistiche ormai globali (anche Scaroni è d’accordo) e la Federazione che insiste su una gestione diciamo così collegiale e redistributiva di tutto il sistema. L’impressione è che la vera debolezza dello sport italiano, in generale, sia simile a quella della politica: frammentazione e sovrapposizione di poteri e obiettivi divergenti (il problema carsico è emerso con il presidente del Coni Giovanni Malagò a proposito delle Olimpiadi di Milano-Cortina e nelle parole del ministro Andrea Abodi, nei panni molto milanesi del conciliatore). Ma per tornare al Modello Inter, la differenza di metodo è uno dei segreti del successo, dice Marotta: “Io so che ci sono validi motivi per cui la Lega chiede cambiamenti, ma non bisogna mai arrivare litigando. Serve mediazione, dialogo, scelte condivise. Altrimenti non sono mai scelte vincenti”. Insomma Marotta è pronto a fare il ministro dello Sport, punzecchia il nostro anchorman. Ci sono ancora tre anni di contratto, ci sono i giocatori che vogliono restare, “anche se incedibile nel mondo del calcio è una parola che non esiste”, e c’è molta voglia di dare ancora tanto al mondo dello sport, che è più grande persino del grande calcio, per aiutarlo a crescere. Intanto, c’è la seconda stella.

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