i confini tra gloria e isterismo
Salvare l’eleganza di Napoli campione dal vento dell’imbecillità
Napoli è leggendaria e lo resterà perché sa smentire le contraffazioni in cui è maestra. La sua festa è immensa e sensuale perché non si sa quando è cominciata e non si sa quando finirà. C’è però una linea rossa di sornione e astuto rispetto di sé da non oltrepassare
"La gloria", titolo cubitale del Mattino benemerito, e poi il pellegrinaggio dell’ex presidente Ferlaino sulla tomba di Diego nel giorno del trionfo, e l’infinita emozione del paradiso azzurro dal quale saluta la mano del Diez e mille altri segni di gioia autentica sparsi per ogni dove, superstizione, orgoglio, idolatria, cabbala. Complice il calendario, la festa del Napoli calcio si è iniziata prima del tempo e finisce fuori del tempo e dello spazio, si fa assoluto naturale, amore romantico senza confini, interminabile sfoggio di sentimentalismo vero, fondato su attese lunghe, su aspettative frustrate e poi soddisfatte, su equivoci e evidenze solari, tutto smisurato e potente.
Niente da eccepire. Tranne che per un aspetto. Il Napoli ha vinto uno scudetto, tanti anni dopo, perché ha giocato meglio di tutti, velocità e precisione, e perché è risultato una squadra sovrabbondante in fantasia e simpatia. Kvara con la sua facies georgiana più bella ancor delle sue sterzate, la maschera di Spiderman indossata da Osimhen, l’infaticabilità da giocoliere di Di Lorenzo: ce ne sono di tratti non mistici, non esoterici, piani e semplici, da mettere in palchetto per una grande vittoria sportiva e molto di più. Un saggio perfetto di Massimo Adinolfi e Davide Grossi qui al momento spiegò tutto il retroscena vero di questa fulgida commedia gloriosa che è classifica antropologica e divinizzazione laica di una cifra urbana, storica e poetica.
Fantasia e simpatia devono riscuotere dunque la loro parte, non possono essere sopraffatte dall’elemento nostalgico e magico, dal non detto del morto che afferra i vivi, dal suono che si fa strepito e annulla la musicalità del fatto, la partitura del successo. Napoli è leggendaria e lo resterà perché sa smentire le contraffazioni in cui è maestra, esige con noncuranza e scetticismo la giusta immensa misura d’amore che il mondo le porta, tutti sanno o intuiscono che i napoletani sono i primi a crederci e a non crederci, è il segreto di Pulcinella, della città virgiliana, leopardiana, è il canovaccio proprio di Fuorigrotta.
La sua festa è immensa e sensuale perché non si sa quando è cominciata e non si sa quando finirà. C’è però una linea rossa di sornione e astuto rispetto di sé da non oltrepassare. C’è un’eleganza scassata o fané da confermare nel miracolo di ogni giorno.
Nei suoi diari intimi Charles Baudelaire, cantore come nessuno della città irreale, scrisse preveggente parole rimaste celebri: “Ho coltivato il mio isterismo con godimento e con terrore. Ora ho sempre le vertigini, e oggi, 23 gennaio 1862, ho subìto un singolare avvertimento: ho sentito passare su di me il vento dell’ala dell’imbecillità”. Ecco, Napoli ha difetti tutti perdonabili e perdonati, e conosce godimento e terrore, ma non ha una patologica predisposizione all’imbecillità, che in ogni isterismo è in agguato. Ora che ha sempre le vertigini, ora che il fremito di una vittoria alata l’ha attraversata nelle fibre, com’era giusto che fosse, spiegabile, ovvio perfino, deve guardarsi dal vento dell’imbecillità.