Il Foglio sportivo

Il Super Bowl tra le strade di Filadelfia

Roberto Gotta

Un luogo che si identifica perfettamente con il mito di Rocky, dove si esaspera il contrasto tra l’aria nobile di storia e l’aria proletaria. La città che fischiava anche Kobe Bryant si è innamorata degli Eagles già campioni nel 2018

The streets of Philadelphia, le strade di Filadelfia, cantate trent’anni fa da Bruce Springsteen, erano quelle percorse da un disgraziato malato di Aids, incapace di aiutarsi e di farsi aiutare, strofe sconsolate e senza speranza a supporto del film, Philadelphia appunto, che raccontava il tormento di un Tom Hanks avvocato di successo licenziato per la sua omosessualità e la sua condizione di infetto. Passati tre decenni, l’Aids non ha più quella rilevanza ma le strade di Philadelphia inducono cupezza per un altro motivo, la violenza, specialmente con armi da fuoco: praticamente tutti i candidati a sindaco, che entrerà in carica a inizio 2024, hanno dichiarato l’intenzione di voler immediatamente chiedere lo stato di emergenza, e non sarebbe la prima volta. Problema peraltro comune alla stragrande maggioranza delle metropoli americane, quasi tutte governate da democratici, spesso impiccati tra la richiesta di maggiore sicurezza di una parte dei residenti e pressioni di vari gruppi contrari a qualsiasi restrizione. 

 

In questa atmosfera, lo sfogo sportivo diventa una gradevole narrazione parallela, quasi impermeabile al resto, e a Philadelphia lo sport, ultimamente, ha prodotto nei due sport più popolari, il baseball e il football, finaliste, più o meno a sorpresa: a ottobre i Phillies non sono riusciti a superare gli Houston Astros nella World Series, mentre ora tocca agli Eagles, al loro secondo Super Bowl nel giro di cinque anni. Nel 2018 a Minneapolis batterono a sorpresa i New England Patriots, 41-33, conquistando il loro primo titolo dal 1960, quando la finale non si chiamava ancora Super Bowl. Soddisfazioni che a sentire il tifoso locale medio sono rare e tormentate, ma è una ulteriore narrazione di involontario narcisismo vittimistico, tipico di molte città e che in alcuni casi si unisce a un atteggiamento fin troppo aggressivo: è questa la reputazione dei tifosi di ‘Philly’, che oscillano tra il gloriarsi di essere intransigenti e cattivi, per quanto lo possano essere tifosi americani, e il dolersi di dover aspettare troppo tra un successo e l’altro, causa principale della suddetta aggressività, diventata quasi proverbiale

 

Nel vecchio stadio di football e baseball, il Veterans Stadium, un antiestetico scodellone di cemento, il settimo anello, o livello 700 nella dizione locale, era considerato un territorio nel quale nessun tifoso avversario doveva mai indossare la propria maglia: a un certo punto, al piano terra, in zona seminascosta, venne persino costruita una mini aula giudiziaria per il processo per direttissima e l’incarcerazione immediata, in celle adiacenti, di supporter colpevoli di eccessi verbali e alcolici, e lo stadio nel corso del tempo cadde comunque in uno stato pietoso, con torme di topi a scorrazzare ovunque, inseguiti da gatti portati apposta dagli inservienti. I philadelphiani di tutto ciò si vergognavano, sentendosi però al tempo stesso orgogliosi della fama intimidatoria e tenebrosa che scaturiva da fondamenta così mediocri. È la Philly blue-collar, la Philly operaia e proletaria di italiani, irlandesi, tedeschi e scandinavi, ma soprattutto di afroamericani, che nel censimento del 2000 sono diventati il primo gruppo etnico locale: tutti aggiuntisi agli inglesi che per primi si erano insediati, dandole quel nome così greco ed eufonico che vuol dire “città dove i fratelli si vogliono bene”, e i fratelli erano quelli della fede quacchera del fondatore (1682), William Penn, da cui nasce anche il nome dello stato, Pennsylvania. Penn, perseguitato in patria per la propria fede, intendeva porgere l’altra guancia e creare una città in cui si fosse, appunto, tutti fratelli. Città che è dunque nobile ed aristocratica, luogo della firma della Dichiarazione d’Indipendenza nel 1776 e persino capitale degli Stati Uniti a tratti fino al 1800, e che nella zona appena fuori, a nordovest, raggruppa alcuni dei sobborghi più ricchi d’America, cittadine dislocate lungo la vecchia linea ferroviaria e dunque collettivamente riunite sotto il nome di Main Line: reddito medio a livello di Beverly Hills, case che sembrano castelli e quanto di più simile alla nobiltà britannica si potesse trovare negli Stati Uniti.

 

Qui abitava per esempio Kobe Bryant, che per questa provenienza benestante non fu immediatamente accettato dalla sua città, qui però – nei centri sorti a intervallo tra quelli nobili, e destinati ad ospitare le famiglie dei giardinieri, maggiordomi e domestiche – abitavano anche alcuni dei grandi atleti di questa città, come Wilt Chamberlain, stella di quella Overbrook High School 94 per cento afroamericana, frequentata in anni diversi anche dal cantante e attore Will Smith. Ecco allora il contrasto, del tutto naturale in qualsiasi metropoli ma qui accentuato dalla frenesia con cui i tifosi si identificano come incivili, tra l’aria nobile di storia e l’aria proletaria, incrementata anche dalla figura immaginaria di Rocky: che non è mai esistito ma incarnava non solo lo spirito cittadino, non solo perché a correre sulle scalinate e a prendere a pugni povere carcasse era stato il peso massimo Joe Frazier, figlio del sud adottato dalla città con amore, appunto, fraterno.

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