(foto Ansa)

a san siro

Dopo due anni da Don Rodrigo il Milan s'è fatto Don Abbondio

Giuseppe Pastore

La sconfitta nel derby contro l'Inter ci dice che i campioni d'Italia si sono persi. Così come il loro allenatore Pioli, che adesso predica il "prima non prenderle" ben poco adatto ai rossoneri

Il povero Don Abbondio è passato suo malgrado alla storia come simbolo italiano di pavidità: da due secoli gli facciamo dire che “il coraggio, se uno non ce l'ha, mica se lo può dare”. In realtà Don Abbondio non era banalmente un coniglio; bensì un realista, uno che a sessant'anni aveva imparato a capire in che direzione girava il mondo, e ormai si rassegnava a subirlo. La rassegnazione con cui ieri sera Stefano Pioli ha accettato di vestire il saio è più amara di una semplice mancanza di coraggio: sapeva di subire, si è disposto in un assetto predisposto a subire e, inevitabilmente, ha subito. Dopo il triplo trauma consecutivo Supercoppa 3-Lazio 4-Sassuolo 5, ha avuto una settimana per preparare un derby sinceramente non cruciale se non nell'umore – lo scudetto è andato da un pezzo, ma il Milan ha ancora numericamente intatte le proprie chance di andare in Champions – e ha deciso di trasmettere alla squadra uno spirito di stracciatella, l'opposto della spavalda arroganza indossata per oltre due anni. Saio e cilicio in difesa, pigiamone di flanella nella metà campo avversaria, dove i campioni d'Italia sono stati uccel di bosco per oltre sessanta minuti: Onana si è dovuto proprio impegnare per bloccare con le mani almeno un tentativo del Milan, un tiretto di Brahim Diaz destinato sul fondo di circa un metro.

 

Dopo due anni da Don Rodrigo – prepotente, rumoroso, ma certo non inosservato – il Milan si è dunque trasformato in Don Abbondio, tanto da coinvolgere in questa triste esibizione la stessa Inter, che intorno al 70' s'è rattrappita temendo di subire una nuova beffa dopo quella del 5 febbraio 2022: poi Inzaghi s'è dato una mossa, ha mandato dentro Brozovic e Lukaku a suonare la tromba e ha chiuso in scioltezza, senza nemmeno concedere al Milan l'estremo appiglio di un calcio d'angolo, un tiro da 30 metri, un traversone isolato. C'è da sperare che Paolo Maldini fosse avvisato che il derby sarebbe andato così; c'è da sperare che la società – almeno lei – sia ancora sintonizzata sulle frequenze di un allenatore smarrito, del quale adesso non sappiamo nemmeno come giocherà venerdì contro il Torino, per non parlar del Tottenham. Non solo Stefano Pioli non aveva mai innescato retromarce così spettacolari al Milan, ma non l'aveva mai fatto neanche altrove, preferendo morire con le sue idee alla Lazio e anche all'Inter, dove ancora ricordano un 1-3 subito in casa dalla Roma di Spalletti che aveva cercato (troppo) allegramente di aggredire con una formazione iper-offensiva. Adesso gli chiedono di Rafael Leao, l'MVP della stagione 2021-2022, il pezzo pregiato della rosa dalla valutazione di oltre 100 milioni di euro, e lui risponde con burocrazia notarile che ha “un grandissimo potenziale” ma “deve stare attivo per tutta la partita”, frasi vecchie di due anni. Adesso parla con Theo, per due anni debordante anima ribalda e sulfureo animale da derby, e invece Theo a stento gli risponde e poi cammina, al massimo corricchia, esordisce con uno scellerato colpo di tacco nella propria area dopo venti secondi, non affonda mai, non tenta nemmeno uno di quegli isolati strappi isterici che tante volte avevano salvato la pelle del Diavolo. Adesso Pioli cerca di serrare i ranghi attorno a Tonali e invece Tonali non vince un contrasto per tutto il primo tempo, atleticamente pareggiato da un Calabria cottissimo, messo alle corde da Laurienté e Dimarco nel giro di una settimana, in condizioni fisiche per cui – si diceva un tempo – dovrebbe andarsene un po' in montagna.

 

Stiamo parlando di molti dei leader del 19° scudetto: non possiamo prendercela più di tanto con la bassa manovalanza dei Messias e dei Krunic, con De Ketelaere ormai non considerato nemmeno come quinto cambio, o con il povero Tatarusanu che se ieri non fa il miracolo al quarto minuto su Lautaro, chissà come va a finire. Ma la retorica da basso impero del “giocano contro” è una triste abitudine letteraria di chi è abituato a cercare e sognare complotti dietro ogni angolo della strada. A questo proposito, vorremmo banalmente suggerire che il Milan non sembra possedere una personalità tale da tramare nell'ombra il ghigliottinamento di Pioli: è una squadra giovane, che vive di entusiasmi volatili e che proprio per questo ieri forse non andava mortificata con lo squallido esercizio del parcheggio del pullman in area, che si attaglia meglio ad allenatori, calciatori e uomini più scafati. Sicuramente Pioli non ritroverà le redini dello spogliatoio ordinando il “primo non prenderle”, ma è pur vero che le gambe e l'energia mentale per reggere il vecchio 4-2-3-1 non ci sono più da due mesi: e allora è un bel pasticcio. Il manuale di ogni crisi calcistica prevede che a questo punto se ne esca “facendo le cose semplici”: ma il Milan di questi anni è stato l'opposto della semplicità, ha predicato un calcio ottimista con altissima percentuale di rischio. Fatte le debite proporzioni, è un tracollo che ricorda quello del Liverpool di Klopp, altra squadra dai principi tattici hard-core che era già in forte flessione a ottobre e adesso è definitivamente precipitata dopo l'infortunio del leader Van Dijk (sabato ha perso 3-0 a Wolverhampton in maniera indecorosa), decimo a -11 dalla Champions nonostante un mercato molto dispendioso che però stranamente si è concentrato solo sull'attacco e non sulla difesa. Milan e Liverpool sono due squadre che non hanno modo di limitare i danni abbassando i ritmi del palleggio, come potrebbero fare nel caso l'Inter o il Napoli: la ricerca estrema della verticalità ha fatto le loro fortune, ma adesso – con testa, gambe e anima disconnesse una alla volta – si è trasformata in condanna. Così adesso dopo il tracollo c'è il rischio della depressione: alle porte c'è un altro bivio da incubo a cominciare da venerdì sera, quando a San Siro tornerà il Torino di Juric, cui il Milan ha segnato due soli gol in 390 minuti e ne è stato eliminato in Coppa Italia.

 

A quasi un mese dal blackout fatale contro la Roma, l'inabissamento del Milan rimane un mistero degno di un podcast di Stefano Nazzi. Di altri punti interrogativi è attesa una soluzione soddisfacente: per esempio dove si sia cacciato Maignan, il cui rientro era stato annunciato due settimane fa addirittura dal presidente Scaroni e poi è diventato un argomento mai più dibattuto. E, prima ancora di mettere in discussione Pioli (una scelta che altri Milan del passato, con ben altre disponibilità economiche, avrebbero già considerato), bisognerebbe capire dove stia precisamente di casa la nuova società, che a gennaio non ha ritenuto di intervenire in una modesta spesa di cinque milioni per un portiere di riserva affidabile e di fatto assiste alle cose del Milan in silenzio dal giorno del suo insediamento a fine agosto. Lasciando così il cerino in mano a Maldini e Pioli, che si sono fatti un po' troppo cullare dal pensiero stupendo di essere un grande dirigente e un grande allenatore a prescindere da qualunque proprietà e forse hanno sottovalutato quanto pesino, in ogni epoca, le giornate amare in quell'ambiente chiamato Milan: quel posto in cui, dopo aver fatto bene, ti tocca fare meglio.

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