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Il Foglio sportivo

Come l’Arabia Saudita vuole conquistare il mondo col calcio

Gianluca Mazzini

Oltre a Cristiano Ronaldo e alle partite di Supercoppa, italiana e spagnola, ospitate a Riad c'è un piano per usare il pallone come lasciapassare

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Ancora loro: Ronaldo contro Messi, ma questa volta nessun Pallone d’oro o Champions in palio e niente stadi iconici come il Bernabeu o il Camp Nou. Il loro viale del tramonto è nel deserto, costellato da petrodollari e ha come cornice il Re Fahd Stadium di Riad. Con settantamila tifosi arabi ad applaudire CR7, capitano di una selezione saudita, e Messi con il suo Paris Saint-Germain. Nello stesso stadio prima di loro si sono esibiti Real Madrid, Barcellona, Betis e Valencia (Supercoppa di Spagna), Milan e Inter (Supercoppa Italiana). Cinque partite top in una settimana a Riad, quasi una risposta al mese mondiale di Doha. Competizione calcistica ma non più scontri geopolitici. La pace araba passa anche dai due campioni, simboli del calcio moderno, che non si sono mai amati proprio come i loro munifici datori di lavoro: il principe saudita Mohammed bin Salman e l’Emiro qatarino Al Thani.

Due dinastie con le stesse radici beduine, lo stesso credo religioso, il wahabismo (interpretazione integrale dell’Islam sunnita), ma sempre rivali. L’indipendenza dell’Emirato risale al 1971 ma Riad ci ha messo più di vent’anni (1993) per riconoscere il confine di 60 chilometri della penisola che i sauditi hanno sempre rivendicato.  

Dagli anni Novanta con la crescita esponenziale del Qatar i rancori si sono acuiti. La scoperta di uno dei più grandi giacimenti marittimi di gas liquido al mondo, sommata alla sempre più diffusa influenza mediatica di Al Jazeera (fondata nel 1996) ha ribaltato i rapporti di forza in favore del piccolo Emirato. Con Riad che ha subito anche lo “scippo” della principale base militare americana in Medioriente trasferita nel 2003 dall’Arabia in Qatar. L’Arabia grande duecento volte il Qatar con una popolazione di 35 milioni di abitanti contro 3 milioni di qatarini è stata frenata dalla sua rigidità religiosa, il cosiddetto “wahabismo del deserto” mentre i vicini, dando una lettura meno integralista dell’Islam (“wahabismo del mare”), hanno guadagnato credibilità agli occhi occidentali. 

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La tensione tra i due paesi è esplosa nel 2017 quando una coalizione guidata dai sauditi e appoggiata da Egitto, Bahrein, Emirati Arabi ha decretato un durissimo embargo economico nei confronti del Qatar accusato di appoggiare il terrorismo. Ma più che il sostegno al movimento dei Fratelli Musulmani e a gruppi salafiti, sotto accusa c’è il legame tra Doha e l’Iran sciita, grande rivale geopolitico dei sauditi.  Un embargo che ha messo a rischio anche il Mondiale degli emiri. Il Qatar, che importa tutto, è riuscito a sopravvivere solo grazie ad un imponente ponte aereo con Teheran.

 

Nel tentativo di salvare il Mondiale 2022 si era mossa anche la Fifa di Gianni Infantino che ha cercato di allargare il torneo a 48 squadre, per condividere la manifestazione anche con i vicini del Qatar come Emirati e Arabia. Progetto fallito prima di nascere dopo l’infruttuoso tentativo del numero uno del calcio mondiale con Mohamad bin Salman allo stadio Luzniki (giugno 2018) dopo la partita inaugurale del Mondiale russo tra Russia e Arabia Saudita. Le pessime relazioni tra le monarchie del Golfo sono esplose alla Coppa d’Asia del 2019, disputata negli Emirati Arabi. La vittoria a sorpresa dal Qatar che ha battuto sauditi e padroni di casa ha suscitato proteste da parte del pubblico locale con lanci di scarpe e bottigliette nei confronti della squadra degli emiri. La situazione si è sbloccata solo nel 2021 grazie al presidente americano Joe Biden che è riuscito a mettere fine all’embargo, ottenendo in cambio l’aiuto degli emiri per far uscire gli americani dal pantano afghano. 

Archiviata la “guerra” con gli emiri, il principe saudita Bin Salman ha deciso di mostrare un volto più conciliante per fare dimenticare i tanti scheletri nell’armadio: dall’omicidio a Istanbul del giornalista Jamal Khashoggi alla guerra in Yemen. Obiettivo: imitare il successo planetario dei cugini di Doha.

Ecco allora la “Saudi Vision 2030” (ispirata alla “Qatar National Vision 2030”): un manifesto politico-economico incentrato su attività di soft power e sportwashing con il calcio in primissimo piano. Scopo: attutire i tanti riflessi negativi che gravano su paese a partire dalla scarsa considerazione per diritti umani e civili (si pensi alle 88 condanne a morte con decapitazione dello scorso anno). Per sviluppare questo progetto nel 2018 sono stati acquistati i diritti triennali delle finali della Supercoppa italiana (costo 25 milioni di euro) e della Supercoppa di Spagna (con formula che prevede due semifinali e una finalissima). I buoni rapporti con la Spagna, che derivano dall’amicizia del principe Bin Salman con il numero uno della Liga Javier Tebas, hanno portato anche a un accordo per far giocare nove giocatori sauditi nel campionato iberico. 

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Nell’ambito della “Saudi Vision 2030” c’è anche lo sbarco nel calcio europeo. Ecco nel 2021 l’acquisto, dopo non poche polemiche politiche, del Newcastle squadra della premier inglese (oggi quarta in classifica grazie a più che consistenti investimenti sauditi). Operazione finanziata da Pif (Public Investment fund). Fondo che ha in cassaforte la bellezza di 430 miliardi, una disponibilità finanziaria superiore anche a quella della Qatar Sport Investment. Ed è tutto dire.

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Anche per l’acquisto del club inglese c’è voluta prima la pace tra Arabia e Qatar che ha posto fine alla pirateria tv. I sauditi erano accusati dalla televisione qatarina beIN Sport di proteggere le trasmissioni illegali di partite del campionato inglese, di cui l’emittente di Doha detiene i diritti per il Medioriente e il Nord Africa. Ma la strategia sportiva del Regno wahabita ha anche un altro punto di forza: la Qiddiya Investment Company (posseduta al 100 per cento da Pif) che finanzierà per i prossimi 20 anni l’Al Nassr e l’Al Hilal, i due principali club calcistici di Riad. Il colpo Ronaldo, insomma, non resterà isolato.

Operazione che si inserisce nel fantasmagorico progetto di Qiddiya City che copia ma in dimensione esponenziale l’Aspire Accademy Doha, cittadella dello sport di Doha. A 40 chilometri dalla capitale saudita sta nascendo un centro globale per lo sport e l’intrattenimento che si sviluppa su 330 chilometri quadrati, il doppio di una città come Milano. Di questo centro si vuole fare la più grande destinazione turistica mondiale in grado di ospitare fino a 17 milioni di visitatori l’anno.

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Scomparsi gli oligarchi russi, quasi estinti i magnati cinesi, la colonizzazione del calcio nel segno dell’Arabian Football e dei suoi petrodollari appare inarrestabile. Prossima tappa, c’è da scommetterci, l’assegnazione del Mondiale del 2030 all’Arabia Saudita. 

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