Un'immagine dell'amichevole tra Croazia e Belgio del giugno del 2021 (foto Ansa)

Qatar 2022

Croazia-Belgio può essere il canto del cigno almeno di una tra le due selezioni più talentuose degli ultimi anni

Enrico Veronese

Quattro anni fa al Mondiale in Russia, le due Nazionali furono tra le migliori squadre della rassegna iridata. In Qatar quel tempo sembra lontanissimo

Quattro anni fa, a Mosca, avrebbero potuto giocarsi il titolo mondiale. Sarebbe stata una sfida del tutto inedita, tra due nazionali che mai avevano raggiunto il livello più alto della competizione. Nel pomeriggio, invece, Belgio e Croazia saranno in campo per un obiettivo tanto minimale quanto di sopravvivenza, ovvero il passaggio del girone eliminatorio a Qatar 2022: sic transit gloria mundi, almeno una tra le due selezioni più talentuose degli ultimi dieci anni rischia di non accedere agli ottavi di finale. Com’è stato possibile, considerato che il girone con Marocco e Canada fino alla vigilia non pareva dei più insormontabili?

  

Riavvolgendo il nastro fino alle semifinali russe, il Belgio allora ha davvero sfiorato il primo Mondiale della sua storia: battuto da un colpo di testa di Umtiti, dopo aver eliminato il Brasile e messo paura alla Francia fino all’ultimo. I suoi alfieri erano tutti nello spolvero degli anni, si affacciavano altri prospetti e c’era entusiasmo nella coesione. Ora le convocazioni di Roberto Martínez perpetuano un gruppo sufficientemente logoro (Vertonghen), in precario stato di forma (Lukaku), involuto (Eden Hazard) e pure assai falloso (Witsel): novanta minuti possono essere il loro canto del cigno, oppure la nascita di una storia nuova. A patto di uccidere il padre, rimuovere chi da tempo costituisce un tappo per l’esplosione dei giovani e affidarsi a una generazione inedita, che scalpita in panchina sapendosi capace del tutto per tutto.

  

Chiunque scenderà in campo a rappresentare valloni e fiamminghi si troverà di fronte i Vatreni, gli infuocati a scacchi che hanno – più di altri – ereditato il genio calcistico della ex Jugoslavia: la Croazia in finale c’è pure arrivata, ai Mondiali del 2018, scalzando a sorpresa l’Inghilterra. C’era Mandžukić, molto più di un centravanti e di un leader, anche in senso tattico; parava il già maturo Subašić, allora Rakitić e Rebić erano fondamentali e oggi assenti, nemmeno caduti in disgrazia. Per chi è rimasto in sella, la partita allo stadio di al-Rayyan potrebbe essere definitiva, prima dell’inevitabile transizione a pescare da un serbatoio sempre fertile e rigoglioso.

 

Quella domenica di luglio, dall’Alpeadria confinante in molti raggiunsero le spiagge istriane e dalmate, per vedere da vicino com’è – se succede – vincere un Mondiale altrui, indossando una tovaglia a quadri. Simpatica allo stesso modo dei belgi, egualmente narcisi e perfetti per il paradigma politicizzato dai soliti noti, che contrapponevano monoetnie identitarie a cittadinanze cosmopolite.

 

Eppure, solo un Mondiale dopo – come gli antichi Greci computavano il tempo secondo le Olimpiadi – la percezione delle duellanti odierne, sbeffeggiate dal Marocco, irretite dal Canada, percorre la nota scala di Arbasino: da brillanti promesse a soliti stronzi. La complicità ora sposta il suo asse verso gli avversari scaltri o forzuti, mentre gli aspiranti venerati maestri arrivano ammaccati anche dalle polemiche: se l’accusa di “discriminazione territoriale” rivolta ai tifosi croati per uno striscione contro il portiere serbo-canadese Borjan è retaggio di una guerra mai davvero terminata del tutto, ben più dilaniante appare il dissidio nello spogliatoio belga, tra compagni che non si parlano e rivelazioni piccanti ma datate.

 

Il caos interno non è certo un viatico verso una serena prestazione in campo, sta di fatto che oggi – il torneo è ancora lungo, e tutto può accadere in partita singola – quasi nessuno si sentirebbe di pronosticare una finale con il Belgio e/o la Croazia. Tanto da parlarne al passato prossimo, con i dovuti rimpianti (“sarebbe stato bello”, “avrebbero meritato”) riservati nel tempo ad altre splendide incompiute, per quel limite – forse invalicabile – dei più belli a vedersi che quasi mai sono anche i più bravi nel medagliere: ma l’Olanda di Cruijff, l’Ungheria di Puskás, l’Inghilterra di Gascoigne risiedono nella memoria collettiva anche più delle loro prevaricatrici, pur iscritte all’albo d’oro con la Coppa tra le mani.

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