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Qatar 2022

Messi non deve vincere per farsi Maradona

Andrea Romano

Leo non può essere Diego semplicemente perché è il suo esatto contrario. Il calcio della Pulce non è mai diventata romanzo popolare perché manca di quella dimensione sociale che è stata l’elemento essenziale di Maradona

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La retorica assomiglia a carta moschicida. E a forza di ballarci sopra uno finisce sempre col ritrovarsi intrappolato. È così per gli uomini, ma soprattutto per le divinità. Una legge ferrea con cui Leo Messi è stato costretto a familiarizzare ormai da tempo. Perché la Pulce argentina arriva al Mondiale avviluppato da una narrazione insopportabile. Gli viene chiesto di alzare al cielo la Coppa, ma non per solidificare la sua grandezza o per distribuire gioia a un popolo intero. No, Messi deve vincere per farsi finalmente Diego, per uscire dall’ombra di un giocatore che è stato chiamato col nome di dio. L’impresa non prevede esami di riparazione. O Santo o eretico, o fenomeno assoluto o meraviglioso incompiuto. Un’idea che ha assunto presto le sembianze di un paradosso. Perché suggerisce che il calciatore più geniale degli ultimi trent’anni possa essere accettato davvero solo dopo aver abiurato se stesso ed esser divenuto qualcun altro.

   

Quella della matrice di Maradona che rivive in Messi è una suggestione che si è trasformata in un topos letterario difficile da scardinare. Eleva a sistema una similitudine che in verità non esiste. Leo non può essere Diego. Semplicemente perché è il suo esatto contrario. In pensieri, parole, opere e omissioni. Il calcio di Messi non è mai diventata romanzo popolare. Perché manca di quella dimensione sociale che è stata l’elemento essenziale di Maradona. Per l’Argentina Diego non è stato solo un totem intorno al quale ballare. È stato uno specchio, un eresiarca da invocare come se fosse un santino, un generatore di speranza. La sua immedesimazione con l’Argentina è stata così completa da trasformarlo in una sineddoche buona per indicare il suo paese, in un nome che raccoglieva al suo interno una nazione intera.

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Al contrario, per anni Messi è stato dipinto quasi come un estraneo in casa sua. A dodici anni ha lasciato l’Argentina per trasferirsi a Barcellona. Un addio doloroso, che ha sottolineato il fallimento sistemico di un paese che non è stato in grado di dare a un suo figlio le cure necessarie. E proprio per questo rivedere Messi significava riaprire una ferita. La mancanza di prossimità ha impedito di stabilire un’interdipendenza. Da quel momento Leo ha iniziato un percorso che lo ha portato a identificarsi perfettamente non solo con una città, ma con una filosofia calcistica lontana anni luce. Messi non è stato l’espressione del fútbol luchado dell’Argentina fra gli anni Ottanta e Novanta, ma l’emblema del tiki-taka catalano che ha rivoluzionato il nuovo millennio. E ogni volta che è tornato in patria per vestire la maglia dell’Albiceleste, Leo è stato visto con diffidenza, quasi come se fosse un caro sconosciuto. È andata avanti così per anni. Almeno fino alla Copa América dello scorso anno.

  

La carriera di Maradona è stata un romanzo piratesco e picaresco, una favola dove il protagonista è riuscito a trionfare grazie a un talento smisurato, ma dove la vittoria è diventata ancora più iconica grazie al sotterfugio, all’imbroglio più smaccato. La mano de Dios ha assunto i contorni del mito fondante per un nuovo senso di appartenenza argentino, ha trasformato un quarto di finale dei Mondiali del 1986 in una commedia senza tempo. Un gesto istintivo che racconta alla perfezione il multiforme ingegno di Maradona, ma è allo stesso tempo quanto di più lontano possa esserci dall’essenza di Leo, che a Barcellona ha finito con l’incarnare solo buoni sentimenti. Soprattutto sotto Guardiola. Soprattutto nel duello contro il Real Madrid di José Mourinho. Un’aurea zuccherosa che gli ha impedito di trasformarsi in un politico con le scarpette bullonate ai piedi. Maradona ha trascinato alla vittoria un club periferico come il Napoli, ha dato la possibilità a una città di sedersi allo stesso tavolo dei padroni. Messi invece è stato bandiera di un Barcellona opulento, ingombrante, economicamente svagato. Diego ha lottato apertamente contro i poteri forti e contro la Fifa. Leo quei poteri forti ha finito per abbracciarli, soprattutto nell’era post-Barcellona, quando ha accettato i petrodollari del PSG targato Qatar pur di continuare a seguire un sogno chiamato Champions.

 

Messi non è stato Maradona e non lo sarà mai. Perché lo sport è cambiato. Perché il mondo è cambiato. Diego ha potuto essere giocatore e capopopolo in un calcio più ingenuo e meno ingessato, lontano dalla cultura dell’highlights e dalle dichiarazioni necessariamente asettiche e preconfezionate. La grandezza di Messi sta nell’essere stato semplicemente se stesso. Il miglior calciatore di tutti i tempi, un uomo con un vissuto personale fiabesco, un genio tascabile che ha dimostrato che il gesto tecnico sublime può avere la sua serialità, che l’accumulo di trofei non ha solo connotazioni negative. Così per capire davvero Leo bisogna lasciar andare Diego. E magari sperare che in questo suo ultimo Mondiale Messi possa scrivere una narrazione diversa di se stesso. Anche perché la Pulce ha ormai 35 anni. E presto le sue giocate entreranno nella dimensione comune del rimpianto e della nostalgia.

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