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Il Foglio sportivo

Il Brasile non gioca solo per vincere il Mondiale

Fulvio Paglialunga

La maglia della Seleção al centro della disputa politica tra Lula e Bolsonaro. C’era chi non la voleva indossare

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Quando si gioca un Mondiale il distretto di Caiçara, a Belo Horizonte, si trasforma: bandiere del Brasile vengono appese ovunque, si addobbano persino i lampioni e i pali dell’elettricità, le strade si colorano di blu, verde e giallo. Hanno iniziato nel 1994, finì con la Seleção campione e, da allora, hanno pensato di replicarlo. Quest’anno hanno aggiunto uno striscione: “Não é política. É Copa”. Chiaro: non è politica, è la Coppa. O almeno, chiaro a noi che vediamo il Brasile da lontano, non a loro che vivono in un paese spaccato in due, in cui persino la maglia della Nazionale diventa terreno di lotta e quindi, in un pezzo di paese vestito a festa per il pallone, bisogna spiegare che no, la squadra non è politica.

 

Il Brasile che ha vinto alla prima, vestito di verdeoro, è quasi certamente la squadra più forte di quelle in Qatar, ma non è una squadra serena. Ha alle spalle un paese in agitazione, diviso, ed è colpa della campagna elettorale appena finita, che ha visto Lula vincere le presidenziali di un soffio, ma ha anche fatto vivere giorni senza esclusione di colpi.

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C’entra Jair Bolsonaro, l’ex presidente che non si rassegna all’esito delle elezioni e che per vincere sembrava disposto a tutto. Ha indossato la maglia della Nazionale come un simbolo identitario, l’ha fatta indossare ai suoi sostenitori, si è appropriato dei colori, l’ha chiamata “moda patriottica” e ha creato un’enorme discussione ideologica: la maglia del Brasile è di estrema destra? L’effetto, in un paese che in questo momento o è di qua o è di là, è stato deflagrante; per i progressisti, che pure hanno vinto le elezioni, quella divisa è ormai stata rubata e ora bisogna decidere che fare: la scelta tra è rifiutarla da adesso in poi o recuperarla come patrimonio nazionale. Giovedì il Brasile l’ha indossata, anche se nelle settimane precedenti c’era chi chiedeva di giocare con la seconda maglia, quella blu, e chi chiedeva di tornare a quella antica. Perché la maglia gialla con gli inserti verdi è relativamente giovane: il Brasile l’adottò, dopo un concorso, nel 1953, quando decise di abbandonare quella bianca con i pantaloncini blu perché legata alla tragedia sportiva del Maracanazo.

 

Mentre fuori la battaglia politica e dei simboli infuria, dentro la squadra non è sicuro che ci sia serenità. La domanda che sembra scorrere sotto ogni immagine di allenamento e persino durante la partita contro la Serbia è se il calcio può unire una nazione così lacerata. Ma non c’è la risposta, perché nello spogliatoio in cui si agita da mediatore Tite, il commissario tecnico con visibili simpatie a sinistra, c’è per esempio Neymar, che si è schierato apertamente con Bolsonaro negli ultimi giorni di campagna elettorale. E non è stata la prima stella del calcio brasiliano ad averlo fatto, visto che prima si erano esposti anche Ronaldinho, Ronaldo, Dani Alves, Cafu, Rivaldo, Kaká e altri ancora. Tra i vari motivi possibili (nel caso di Neymar sembrano anche favori fiscali ricevuti) c’è la fede ostentata da Bolsonaro, che incontra il movimento evangelico a cui appartengono tutti quei calciatori che esultano ringraziando il cielo. Tite, invece, di Bolsonaro non ne vuole sentir parlare e ha già detto che se il Brasile dovesse vincere la Coppa, non si recherà a festeggiare al palazzo, dicendosi disposto a interrompere una tradizione che dura dal 1958 per salvare la sua integrità. Come si fa, allora, a tenere insieme una squadra che vede la sua maglia usata per scopi politici, che al suo interno ha ferventi sostenitori di chi di quella maglia ha fatto un simbolo di partito e ha anche chi ha votato per Lula, ma pubblicamente ha preferito tenerlo per sé? Tite, che dopo il Mondiale dovrebbe lasciare la panchina del Brasile per sua volontà, ha pensato che fosse meglio dare a tutti la possibilità di esprimersi, anziché vietare i discorsi politici nello spogliatoio, perché “altrimenti invochiamo la democrazia solo se c’è gente d’accordo con noi. Invece, dobbiamo rispettare le reciproche posizioni”.

 

Così si sta tenendo, per il momento, il Brasile. Con la voglia di chi comanda di spazzare gli spettri di una lotta politica durante il Mondiale (e, magari, la lotta politica tout court), cominciando con il salvare la maglia. Ha cominciato proprio Tite, ma poi è toccato a Lula, con un appello: “Non dobbiamo vergognarci di indossare la maglia gialloverde. La maglia non appartiene a un partito politico, appartiene al popolo brasiliano”, annunciando che lui stesso la indosserà, con il numero 13, quello legato al suo partito alle ultime elezioni.

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E prima ancora la Federcalcio brasiliana ha creato uno spot in cui si esalta l’amore dei brasiliani per la maglia, nel tentativo di depoliticizzarla. La campagna viene trasmessa in questi giorni nelle tv del paese e qui si scatena il caso, o forse, no. Perché probabilmente è una scelta precisa utilizzare tra i protagonisti di questo spot proprio Richarlison, che è un anti-bolsonarista. Ma nessuno poteva prevedere che la prima partita del Brasile in questo Mondiale venisse decisa proprio da una doppietta di Richarlison, oppositore ideale di chi la maglia voleva renderla proprietà politica. Se le coincidenze si fermano qui, allora il Brasile si riprenderà la maglia discussa ma il Mondiale sarà ancora aperto. Se, invece, viviamo in un mondo deciso del caso, allora rassegniamoci all’esito scontato: l’ultima volta che il Brasile ha conquistato il Mondiale è stato il 2002. Quell’anno le elezioni presidenziali furono vinte da Lula. E nel distretto di Caiçara, a Belo Horizonte, festeggiarono tantissimo. Non era politica, era la Coppa.

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