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qatar 2022 - il foglio sportivo

Cosa resterà del Qatar dopo il Mondiale

Moris Gasparri

Tempo, potere, spazio. Gli intrecci politici, le morti sul lavoro e un’eredità da saper gestire

Tempo, potere, spazio. Sono le tre parole-chiave per avvicinarci all’apertura della ventiduesima edizione della Coppa del mondo maschile, che necessitano di tre differenti momenti di analisi. Il rito neopagano del calcio ruota da sempre attorno alla ripartizione (o spartizione) del tempo, alla disposizione ordinata e ciclica degli spettacoli festosi nel calendario, e alla loro amministrazione organizzativa. Da questo punto di vista con Qatar 2022 ci troviamo di fronte a un’effrazione delle consuetudini. Alterare il calendario del rito calcistico imprimendovi il sigillo della prima Coppa del Mondo invernale per gli abitanti dell’emisfero boreale, quelli che il calcio lo hanno creato, è in apparenza il segno di un grande potere, quello della famiglia regnante di un microstato passato in qualche decennio dalla non troppo redditizia pesca di perle ai dividendi stellari del gas. Se scaviamo più a fondo, le cose sono però più complicate. 

 

Non tutti gli eventi del calendario sportivo sono infatti uguali in rapporto al tempo. Il potere della rarefazione è un fattore che differenzia i Mondiali dal flusso dell’intrattenimento infinito che invece è oggi il calcio delle competizioni tra club, in cui la ripetizione estenuata di spettacoli si mangia tutto, in cui non sono tollerate pause e decelerazioni di un flusso che inghiotte ogni cosa, sempre più globale nella fruizione, sempre più affollato di match, in cui la gloria della vittoria conta ormai meno della ripetizione stessa di partite, partite e ancora partite.

La potenza planetaria della Coppa del mondo maschile vive al contrario della sua capacità di spezzare questo continuum ripetitivo per metterlo in pausa, decelerandone il flusso con pochissimi eventi ma più significativi (ancora più rarefatti nella seconda parte della competizione), in modo da renderli più intensi e memorabili facendo valere il fattore dell’utilità marginale, conferendo gloria immortale ai vincitori proprio per la capacità di essere ricordati più a lungo derivante da tale separazione temporale, in ovvio connubio con la capacità di dare identità e rappresentazione all’interno del rito alle comunità di destino nazionali, come disse Macron all'Eliseo nel luglio del 2018 ricevendo i vincitori della campagna di Russia.

Qui nasce la domanda: questo Mondiale spezzerà veramente il continuum del tempo ripetitivo? O non rischia al contrario di esserne risucchiato, stretto com’è nella morsa di un flusso interrotto nel vivo della sua azione, che i suoi avidi consumatori desiderano ripristinare al più presto? Un Mondiale senza vera attesa e senza vera eredità, quindi con gloria diminuita proprio per la sua collocazione. Una sorta di All Star Game del calcio, una breve pausa momentanea della stagione, per giunta in un’atmosfera così vicina per il pubblico europeo al ricordo del calcio pandemico delle chiusure in casa. In un intreccio destinale, il fattore tempo riguarda anche il protagonista più atteso, colui che più di ogni altro potrebbe rovesciare questi vaticini, ripristinando la scansione gloriosa: Messi.

 

La sua situazione calcistica in rapporto al Mondiale qatarino è la secolarizzazione del “tempo che resta” di sapore stavolta non pagano ma cristiano, il tempo che rimane prima del Giudizio finale, in questo caso per via dell’età biologica, in un giudizio di gloria o dannazione a cui assisterà trepidante l’intera nazione argentina, quella che più di ogni altra sul pianeta fa dipendere la propria autovalutazione e il proprio posto nel mondo dai risultati calcistici. La storia dello sport ricorda Mys di Taranto, atleta che nell’antichità, alla veneranda età di 40 anni, vinse per la prima volta negli agoni di Olimpia alla sua ultima partecipazione, diventando un apologo, “fare come Mys a Olimpia”. Chissà che non diventi “fare come Messi a Lusail”. Sui numerosi fili che annodano la stella del Paris Saint-Germain alla cultura calcistica della sua nazione, a partire dal convitato di pietra di ogni discorso su Argentina e Mondiale, e cioè Diego Armando Maradona, è caldamente consigliata, quando non proprio obbligatoria, la lettura dell’eccellente libro di Fabrizio Gabrielli, Messi (66thand2nd), ben pensato, ben documentato, ben scritto.

 

Passiamo alla seconda parola-chiave, potere. Il calcio non cambia il mondo, lo sport nemmeno, sarebbe illogico pretendere che eventi basati sull’effimero, per quanto densamente partecipati e visibili, possano stravolgere i meccanismi e gli equilibri di potere globali. Nei pensatoi geopolitici la rilevanza del Mondiale non è un argomento di discussione, il conflitto strategico tra Stati Uniti e Cina o la guerra russo-ucraina sono sideralmente distanti da 28 giorni di festa ed evasione solitamente dominati dalle aree del mondo oggi meno rilevanti dal punto di vista geopolitico, Europa e Sudamerica. Il calcio però fa da specchio della realtà politica. Questo Mondiale ci ricorda un aspetto importante. Non esiste un mondo diviso tra democrazie e autocrazie, c’è uno spazio intermedio che fa da cuscinetto composto da regimi autocratici strettamente legati al mondo democratico, a cui appartengono le monarchie del Golfo Persico, fondamentali per il mondo democratico per l’approvvigionamento energetico, come clienti di forniture militari, o come supporto logistico regionale (anche se ha strappato a Obama i Mondiali, il Qatar ospita una delle principali basi militari Usa nel Medio Oriente).

 

Superare a piè pari questa realtà è possibile solo a patto di scatenare tensioni sociali interne ai paesi europei, dall’impossibilità di scaldarsi alla perdita di posti di lavoro nei comparti industriali interessati. Senza risolvere questo nodo davvero forse irrisolvibile nel breve e medio periodo, ogni critica all’idea che questi paesi possano ospitare grandi eventi sportivi è debole, e magari finisce per assegnare troppa importanza al ruolo geopolitico di organismi svizzeri senza poteri effettuali se non quello di farsi “corrompere” per assegnare ogni tot anni una mega-festa (intermezzo machiavellico, ma davvero possono esistere i grandi eventi sportivi planetari itineranti, beni massimamente appetibili proprio per la loro scarsità e per il prestigio e la visibilità che assicurano, senza che chi se li voglia assicurare metta in campo ogni mezzo e strumento di convincimento possibile, con la protezione dell’elemento centrale di ogni potere statale, il segreto? Nessuna inchiesta giudiziaria sarà mai più forte di questa logica, che, se pensiamo alle ben note vicende di Germania 2006, riguarda anche il mondo delle democrazie). La nazione le cui tifoserie hanno protestato più vivacemente per il boicottaggio, proprio la Germania, è la stessa che ha di recente siglato col Qatar un mega-accordo per la fornitura di gas, idem la Francia, che non metterà maxischermi a Parigi, ma ha siglato importanti accordi anche per la vendita di forniture militari.

 

Non assegnare i Mondiali al Qatar avrebbe evitato le morti sul lavoro per i mega-investimenti infrastrutturali collegati? Molto probabilmente no, la modernizzazione accelerata del Qatar ci sarebbe stata comunque, magari in altre forme e sfruttando altri eventi, solo con meno critiche, perché le meritorie inchieste delle ong inglesi e della stampa angloamericana sono sicuramente servite a portare alla luce la situazione para-schiavistica dei lavoratori migranti, e a spingere per l’adozione di riforme che, se osservate in comparazione ai percorsi dei vicini di casa del Qatar, sono davvero epocali (su questo aspetto è utile la consultazione dei vari report del gruppo di lavoro appositamente creato nel giugno del 2021 dalla Uefa), anche se resta sempre l’incognita di cosa accadrà una volta spenti i riflettori al brechtiano popolo senza nome e senza volto che ha cucinato gli ingredienti della festa della vittoria. Una riflessione la merita anche il molto abusato concetto di sportwashing. Il vero obiettivo degli investimenti qatarini nel calcio non è quello di conquistare cuori e menti del pubblico occidentale, anche perché il bilancio di dieci anni di impegno diretto tra Psg e Mondiale è costellato di tante critiche e poca simpatia, quanto piuttosto vincere nei cuori e nelle menti delle élite occidentali guadagnando relazioni, rapporti e sicurezza militare, non certo per lavare e imbellettare in maniera ipocrita il proprio regime, quanto perché, nonostante la ricchezza del gas, il Qatar resta ancora un microstato militarmente molto debole schiacciato da un vicino ingombrante e spesso ostile come l’Arabia Saudita.

Veniamo all’ultima parola-chiave, spazio. L’asse del mondo e quello del Mondiale non coincidono. A distanza di 92 anni dai mondiali in Uruguay del 1930, la geografia dei vincitori è ancora immutata, con Europa e Sudamerica a spartirsi trofei e successi, come già dicevamo le aree che non sono tra le protagoniste principali del grande gioco della politica mondiale. Mai come in questa edizione e nelle prossime uno dei motivi d’interesse principali sarà capire se riusciremo mai a vedere una Coppa del mondo maschile vinta, o perlomeno contesa, da una nazionale africana (Senegal?), dagli Stati Uniti, dal Canada o da una nazionale asiatica. Uno dei più grandi fatti sportivi del XXI secolo, se non il più grande, sarà proprio assistere a una loro vittoria. 
 

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