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Perché non c'è nulla di meglio del Rugby Championship

Marco Pastonesi

Il Four Nations dell'emisfero australe mette di fronte Argentina, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica in un campionato del tutto simile al Sei Nazioni. E poco importa se la graduatoria mondiale è guidata dall’Irlanda davanti alla Francia, le "sudiste" sono comunque dominanti

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Le quattro più forti al mondo. Come se fossero le quattro semifinaliste della Coppa del Mondo, ma con due sostanziali differenze. La prima: la Coppa del Mondo si disputa ogni quattro anni e qui invece succede tutti gli anni. La seconda: niente semifinali e finali, totale quattro incontri, due per squadra, ma tutte contro tutte, andata e ritorno, totale 12 incontri, sei per squadra. È il Rugby Championship, il campionato di rugby. Nato dal Tri Nations, diventato Four Nations, considerato il meglio del meglio. Nel rigoroso ordine alfabetico dei Paesi: Argentina, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. Nel fantasioso ordine dei soprannomi: All Blacks (neozelandesi), Pumas (argentini), Springboks (sudafricani) e Wallabies (australiani). Nel convincente ordine delle cifre: Nuova Zelanda (sette volte prima su nove partecipazioni), Australia (una volta prima e cinque volte seconda), Sudafrica (una volta prima e tre volte seconda) e Argentina (otto volte quarta e una volta terza). Il rugby dell’Emisfero Sud. Il rugby dell’altra parte del mondo. Il rugby di un altro mondo.

 

È vero che la graduatoria mondiale attribuisce il primo posto all’Irlanda, il secondo alla Francia, il quinto all’Inghilterra, il sesto alla Scozia e l’ottavo al Galles, cinque protagoniste del Sei Nazioni (la sesta è l’Italia, relegata al quattordicesimo), mentre le Quattro Nazioni sono al terzo posto (Sudafrica), al quarto (Nuova Zelanda), al settimo (Australia) e al nono (Argentina). Ma tutto considerato (qualità di gioco, livello di spettacolo, quantità di pubblico...), le sudiste sembrano dominanti. Per almeno sei perché.

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Perché dopo gli inni e prima della partita, quando giocano gli All Blacks c’è l’Haka, la danza di guerra di origine maori, un rito, una messa, una celebrazione, uno spettacolo nello spettacolo che dovrebbe abbattere barriere geografiche e trasmettere senso di appartenenza, comunque, a un mondo non solo sportivo, ma anche culturale. Purtroppo, anche qui, perfino qui, addirittura qui si manifestano (rare) intolleranze.

 

Perché gli All Blacks, anche se nel ranking mondiale non sono mai stati così giù, anche se hanno perso tre partite consecutive (due contro l’Irlanda e una contro il Sudafrica) e cinque volte in sei match, e questo non succedeva da così tanto tempo da poterlo ricordare a memoria, continuano a essere la squadra di tutti, la supersquadra, la squadra che vince anche quando l’avversaria riesce a fare più punti.

 

Perché, nonostante tutto, il rugby continua a essere lo sport nazionale (e il veicolo internazionale) di Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica, a scuola, sui giornali, alla tv, nella moda, nello stile, nei bar.

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Perché nell’Emisfero Sud si è privilegiato lo spettacolo al risultato, dunque l’attacco alla difesa, cercando – nei test match o in tornei come il Rugby Championship – di ricordarsi la difesa senza mai dimenticarsi l’attacco. Lo spettacolo è quello che apre gli occhi e i cuori, che accende il popolo e il mercato, che concede due ore di stacco e ricreazione da guerre, crisi, pestilenze, siccità.

 

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Perché ogni nazione è rimasta fedele alla propria natura (il Sudafrica alla fisicità, la Nuova Zelanda alla fantasia, l’Australia a una fantasia fisica o a una fantastica fisicità) e perché l’Argentina non ha mai scordato la propria fame.

 

Perché non esiste la paura di discutere, cambiare e rivoluzionare: così i Pumas si sono affidati all’australiano Mike Cheika per guidare la prima squadra, così gli All Blacks hanno ingaggiato l’irlandese Joe Schmidt per curare l’attacco.

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