insolito reportage

Le "clanfe", a Trieste coi tuffatori peggiori del mondo

Mattia Giusto Zanon

Solo una città così folle e atipica poteva inventarsi qualcosa come le “clanfe”, un tipo particolare di tuffo sgraziato che si pratica solo qui, ed è talmente radicato nella cultura locale da essere diventato ormai una competizione seria, con un regolamento, una giuria e appunto un’olimpiade. Ci siamo andati

L’Ausonia è un posto assurdo. Un nome dolce e rotondo che rappresenta un mastodonte in cemento chiaro (ma storicizzato e ormai parte del litorale), uno stabilimento balneare tirato su negli anni Trenta del Novecento con una concezione avanguardistica per l’epoca, 7000 metri quadri dotati di ogni confort; piscine di mare, trampolini per i tuffi, terrazze solarium, ristoranti e zone massaggi. Una struttura unica, capace di ospitare più di duemila persone, e per di più nel pieno centro città. Ogni rito ha il suo tempio, e questo è il tempio delle clanfe. Dei tuffi sgraziati ma di complessa esecuzione, che esistono solo qui, e che in questa regione nostalgica che per le violenze della Storia è costretta a far delle proprie tradizioni dei salvagenti a cui aggrapparsi, un fenomeno sentito come pochi.

 

Lo slancio deve essere equilibrato, sufficiente e mai eccessivo, pena l’ingresso di testa e la vanificazione dell’intento. Che è poi il produrre lo schizzo d’acqua più alto di tutti, cosa che si ottiene solo con un metodo preciso. Conta certo la corporatura del contendente, la sua stazza (per questo si gareggia in categorie), ma conta, molto di più il tipo di ingresso in acqua. Per una clanfa perfetta il clanfador si deve lanciare in aria come volando, a braccia spalancate, e deve librarsi come dando a chi non conosce questa tecnica l’impressione di star per prendersi una sonora panciata sul pelo teso dell’acqua. Ma se l’osservatore è attento, si accorge che le ginocchia sono già piegate, e un istante, un solo rapidissimo istante prima di toccare l’acqua, il tuffatore si contrae, stringe a sé gli arti fino ad assumere la posizione di un ferro di cavallo, di una clanfa, appunto. E l’effetto è devastante, più intenso di un tuffo a bomba, più spettacolare e – se l’intero movimento viene eseguito alla perfezione – quasi poetico.

 

Sono 15 anni che l’associazione Spiz porta avanti questa tradizione, che ha radici storiche molto più antiche: il litorale triestino è fatto di scogli ripidi, poche spiagge, e il tuffarsi per entrare in questo mare è sempre stato tratto tipico e necessità degli autoctoni. Ma questa è la prima volta che la competizione torna dal vivo, in presenza, dal 2019, dopo due anni di assenza e di timidi tentativi di farne due edizioni “virtuali” a causa della pandemia. Ma senza l’Ausonia non ci sono neanche le clanfe. Quest’anno la piscina coi trampolini è ancora chiusa per manutenzione, e così i tuffi si svolgeranno “lato mare”, dettaglio che delizierà i puristi della disciplina, quelli che i trampolini li guardano storto. Sullo sfondo si staglia minaccioso ma tutto sommato innocuo il mega-yacht di Melnichenko, ormeggiato al largo per liberare i cantieri navali che avevano bisogno di spazio dopo il suo congelamento. Qui accanto c’è anche il Pedocin, forse l’unico stabilimento balneare italiano ad avere ancora una rigida separazione maschi-femmine all’ingresso, e un muro che entra in mare, dividendo i due.

La cosa interessante è che essendo già la Venezia Giulia ormai – ahimè – minuscola, a prender parte a un evento simile ci sono davvero tutti. Anche gli insospettabili, scorrendo gli albi d’oro si sa per esempio che vi hanno partecipato fior fior di politici locali e delle vicine Slovenia e Croazia e anche sindaci come Roberto Cosolini, che si tuffò proprio in giacca e cravatta. E come nel caso dell’edizione attuale anche Claudio Sterpin, aitante ottantatreenne noto alle cronache nazionali come “l’amico di Liliana” del recente caso Resinovich che nonostante l’età si lancia in grandi salti mortali doppi.

 

Claudio Sterpin

 

Qualche statistica dell’edizione odierna: 148 gli iscritti, il più piccolo ha 5 anni, il più grande 90. La concorrente più bassa è alta 105 cm, il più alto 193. Sono 42 le concorrenti donne, 106 gli uomini, 30 gli internazionali, tra i quali una folta compagine inspiegabilmente olandese. Invariate pure le categorie di età in lizza: pici (sino agli 11 anni) muleti (12-15) muli (16-25) muloni (26-40) mati e babe (41-50) e poi vece bobe, vece marantighe e la speciale categoria Ufo, quest’ultima riservata agli artefici di tuffi particolarmente complessi.

Non essendo l’intento solo professionistico, ma anche e soprattutto goliardico, un sentimento radicato tra le vie e le piazze della città e che qui ha pure un modo per definirsi, ovvero il cosiddetto morbín, il tutto si trasforma in farsa, per cui, a incidere sul punteggio del tuffo non è solo la perfezione tecnica, ma anche l’originalità del travestimento più astruso. E quindi via di urla in volo, grida di battaglia, salti mortali, avvitamenti, mantelli e travestimenti, si vede di tutto: toghe romane, tute da sci, da astronauta, da ufo. Un gruppo di padovani si lancia in mare mimando la coreografia di un recente meme funerario e getta in mare un componente della squadra vestito da Covid, in uno slancio fortemente apotropaico. Coreografie degne di un sambodromo. Negli anni c’è stato chi si è tuffato pedalando su un triciclo, chi tentando di prendere il volo con dei palloncini a elio e chi, addirittura, completamente cosparso di uova e farina. Molto spesso sono stati proprio i 5 punti assegnati al morbín a fare la differenza. La giuria giura appunto di essere incorruttibile, ma già dalle prime ore si vedono arrivare al tavolo dei giurati vettovaglie sospette e in grande abbondanza, panini, bibite, caraffe di vino e birra. La corruzione ammettono può verificarsi solo con cibi e bevande, mai coi schei.

 

Nemmeno gli incendi sul Carso di questi giorni hanno piegato lo spirito di questi pazzi giochi, in molti avevano pensato che sarebbe saltato tutto, e invece eccoli qui, in un giorno torrido di fine luglio, in questo braccio di Alto Adriatico così lontano da tutto da finire a volte dimenticato dagli italiani stessi, a gettarsi in mare con un urlo liberatorio, con un tuffo, inelegante e libero. Un gesto che vale più di mille parole, un inno alla follia, un inno alla vita.

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