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Cosa ci dice l'arrivo di Dybala a Roma su Mourinho e il calcio italiano

Enrico Veronese

La fine dell'estate da disoccupato dell'attaccante che fu della Juventus coincide con l'inizio di un nuovo capitolo della sbornia mourinhana dei giallorossi. Eppure c'è qualcosa che non torna

L’epilogo della tormentata estate mercantile di Paulo Dybala, giunto la scorsa notte nel ritiro portoghese della Roma, dice meno della svolta di carriera per il giocatore e più dell’appeal magnetico che il neotatuato José Mourinho mantiene saldo – da quasi vent’anni – nei confronti di atleti, società, tifosi e mass media.

 

I ben informati di cose capitoline sapevano già da una settimana che la soluzione giallorossa era la più accreditabile: mentre l’Inter, beandosi di Lukaku, si è resa conto che le operazioni in uscita dei propri attaccanti erano tutte da costruire, e il Napoli (pronto a trattenere Osimhen e ad abbandonare Mertens) si sta per regalare Deulofeu, lo Special One ha compiuto personalmente tutti i passaggi necessari per convincere il fantasista argentino a trasferirsi nell’Urbe.

 

Anche in triangolazione con la stampa e i suoi titoli a effetto, capaci di ingenerare un bisogno inebriante quanto a portata di mano: da wishful thinking a profezia autoavverante, la materializzazione di Dybala all’Olimpico è frutto della pervicace volontà di José di rimanere in linea di galleggiamento con la sua cospicua media-vittorie. Un uomo pronto a tutto per costruirsi la rosa dei suoi sogni, o almeno di quelli praticabili, e capace come sempre di sfruttare una comunicazione personale impeccabile per intessere alleanze cittadine, mostrarsi primo tifoso del suo progetto, dire coi fatti le cose come stanno (vedere la formazione schierata per il tracollo di Conference League in Norvegia), anche a costo di inimicarsi i procuratori.

  

Nell’estate 2021 il brizzolato di Setubal è stato l’uomo della provvidenza per una sterminata fanbase, che già stava facendo la bocca a Sarri (poi lasciato al bivio di Formello) e si è ritrovata stravolta dall’idea pazza dei Friedkin di comprare un totem, prima che un allenatore: furono sùbito stencil con la vespa, magliette iconiche, nuovo font e conferenze che fanno la gioia dei cronisti. Dal momento che nemmeno il 6-1 di Bodø ne ha scalfito l’aura, allora è il caso di dire che – dal primo “non sono pirla” di memoria interista fino al trionfo in Conference League – ai romani e agli italiani piace proprio vederlo mentre fa da parafulmine ai calciatori, trattiene relazioni fuori dal seminato, dispensa endorsement nazionalisti e ottiene la fiducia con furbizia e applicazione. Un feeling unico nel suo genere, che travalica le appartenenze di curva e ricorda altri rapporti, meno edificanti, che le masse hanno goduto nel tempo con ben differenti figure tutte d’un pezzo (prima magari di farle rotolare giù da una rupe). In questo aspetto risiede anche uno dei motivi per cui il calcio italiano non sta ai vertici continentali, dovendo scontare continui ed eterni ritardi nell’assimilazione di nuovi trend, personaggi inediti, pratiche non esplorate.

  

Se Dybala sarà il colpo dell’estate lo dirà solo il campionato, quanto mai d’agosto. Ma fin d’ora è possibile trarre alcune valutazioni: la prima è il carattere tutto italiano, interno alla Serie A, dell’asta per assicurarsi le prestazioni di un atleta quasi trentenne. Fin da quando la Juve aveva annunciato di disfarsene, praticamente nessuna squadra straniera (manco il bulimico Atletico di Madrid) ha partecipato fattivamente al banchetto: Paulo Dybala, da ormai dieci anni, è sempre stata una faccenda domestica. Segno che forse la cosiddetta Joya non è ritenuto all’altezza di giocarsi davvero una maglia nei top team della Champions League?

  

Dipende anche da un ruolo mai definito, presunto “tuttocampista”: come spesso succede ai piedi mancini più deliziosi (basti pensare a Iličić), essi quasi costringono un allenatore e una squadra a cambiare impostazioni di gioco. Dove lo schieri, Dybala, oggi? Al Milan avrebbe fatto probabilmente comodo come prima punta di movimento, come quando il fisico da corazziere non era ritenuto necessario per segnare tanti goal ed “essere utile alla squadra, facendola alzare”. Magari dialogando di fino con Leão. Però chi lo acquista per sfruttarne solo il tiro angolato, magari dopo il rientro dall’esterno, limita le potenzialità tattiche dell’undici e si confina a minori alternative.

  

Impregiudicata resta la questione-Zaniolo: rimane alla Roma? Andrà alla Juve? Sarà compatibile con il nuovo arrivato o si pesteranno i piedi? E davvero un titolare del carisma e dell’esperienza di Mkhitaryan, capace anche di arretrare e far legna, è stato sostituito adeguatamente da questa spettacolare mossa di mercato?

  

Infine, ma non certo per ultimo, l’influsso del chiacchierato “ambiente romano”, tanto passionale quanto umorale. I maligni già si chiedono quanto ci metterà Dybala a diventare carne da macello delle radio sportive e delle pagine di meme, al primo errore veniale, indolenza in allenamento, o (dati i precedenti) al primo acciacco prolungato. E, a un certo punto, nemmeno SuperMourinho potrebbe stendere il suo mantello prodigioso a coprire ciascuno di questi spifferi: mezza Roma, ovviamente, si augura che non sia così. L’altra mezza li aspetta al varco in riva al Tevere.

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