Roberto Mancini (Ansa)

un'altra disfatta

Cosa resta della confusa Nazionale di Mancini. Per ripartire serve un bagno di umiltà

Giuseppe Pastore

L'Italia perde nuovamente la faccia in fondo a un giugno estenuante: travolta 5-2 in Germania. La mancata qualificazione ai prossimi Mondiali ha lasciato il segno, nei calciatori e nell'allenatore, che ora deve trovare una nuova identità a questa squadra. È stata un'annata lunga e dolorosa, ma adesso riaccendiamo la luce

L'Italia perde nuovamente la faccia in fondo a un giugno estenuante, lastricato di partite inutili secondo una buona fetta di giocatori e allenatori stremati da una stagione infinita (a cominciare dalla Premier League, e infatti guardate l'Inghilterra). Anzi no: dopo il bagno di sangue post-macedone, l'Italia ritrova un barlume di futuro e dà un senso alla trascurabile Nations League raggranellando cinque punti in quattro partite, battendo l'Ungheria e tenendo testa due volte su tre a due Nazionali più forti di noi. Entrambe le affermazioni sono valide. E non si vede perché quello che scriviamo da anni sul calcio d'agosto – illusorio, pieno di trappole, guai a prenderlo sul serio – non dovrebbe valere per il calcio di giugno, quando sul groppone dei giocatori pesa anche il fardello di 50-55 partite a testa e il pensiero delle spiagge domina su tutto il resto.

 

“La Germania? Pensavo di perdere già a Bologna 4-0”, ha detto in conferenza stampa Roberto Mancini, che più volte in queste ultime due settimane è sembrato spaesato, contraddittorio, bisognoso pure lui di un biglietto per Porto Cervo. Oppure no: più volte è sembrato ritrovare il filo del discorso interrotto a Wembley, apportare (in forte ritardo, certo) quei correttivi che all'Italia sono sufficienti quantomeno per qualificarsi ai grandi tornei in tutta tranquillità. Entrambe le affermazioni sono valide. Il Mancini buono, il Mancini migliore, quello che ha meravigliosamente cambiato la vita alla nostra Nazionale dal 2018 al 2021, l'abbiamo rivisto nei fatti contro l'ostica Ungheria, contro la Germania a Bologna e contro i resti dell'Inghilterra a Wolverhampton, dove meritavamo di vincere. Nel coraggio di lanciare tanti esordienti abbiamo visto anche antiche tracce della sua celebre vanità (era il caso di proporre due titolari dell'Under 19 in casa dei tedeschi?), ma anche l'ostinazione a non voler rinnegare il sorprendente raccolto del triennio che ci ha portato al titolo europeo.

 

Abbiamo avuto conferma del fatto che la vittoria dell'Europeo non è stata una botta di fortuna in stile Grecia 2004, ma un capolavoro sportivo programmato con lucidità e ottimismo dalle ceneri di Italia-Svezia. Però abbiamo riascoltato tante volte anche il Mancini confuso, allucinato come nella sera di Belfast (“ci andiamo ai Mondiali, e li vinciamo anche”), ancora incapace di elaborare il lutto della mancata qualificazione, ogni volta che ha evocato la possibilità del ripescaggio ai danni dell'Ecuador, prima di essere zittito a stretto giro di posta dal suo stesso presidente. Oppure quando, costretto di nuovo ad aprire il libro dei perché, ha accampato scuse sempre nuove, sempre più variopinte: “Bastava segnare uno dei venti tiri in porta contro la Macedonia”, ha detto il 10 giugno, cancellando dal paesaggio l'eventuale finale col Portogallo – e glissiamo sul fatto che i tiri in porta contro la Macedonia erano stati solo cinque, tutti di qualità rivedibile.

 

L'unica cosa indiscutibile di queste ondivaghe due settimane di giugno è un estremo paradosso: indietro non si torna, quindi si proverà a tornare indietro. È stato deciso di proseguire con Mancini, che in questi mesi ha goduto di una benevolenza mediatica senza precedenti nella storia della Nazionale: un po' per amicizia personale, un po' per lo spiritello della riconoscenza che è un concetto lodevole in tutti i settori della vita, meno che nello sport. La scelta, o meglio la non-scelta di voltare pagina, ha alla base motivi di forte debolezza politica di una Federazione e di un presidente che hanno perso parecchio smalto rispetto per esempio ai mesi del Covid, trascorsi in ammirevole trincea contro una politica che voleva sbarazzarsi del calcio e, a cascata, di tutto lo sport. I tempi sono cambiati e, come non è tempo di riconoscenza sul terreno di gioco, non dovrebbe esserlo nemmeno a palazzo.

 

La clamorosa sconfitta dell'altro ieri al CONI contro Claudio Lotito, trionfatore sul fronte dell'indice di liquidità, è un campanaccio d'allarme. Quindi un concetto va ribadito con chiarezza: se Mancini dev'essere, e Mancini sarà, il tavolo va sgombrato nella maniera meno ambigua possibile da qualunque tentazione di alibi. Il momento è ideale per il lavaggio del cervello: proseguire convinti sulla strada abbozzata in questi ultimi giorni (l'unica percorribile, per mancanza di materia prima in attacco) ma allo stesso tempo rimuovere quel che è stato dalla testa di molti reduci di Wembley 2021 a cominciare dal ct, che nelle sue versioni più lunatiche sembra sempre farci un favore a essere ancora qui. La brutta scena di capitan Donnarumma ringhiante verso la giornalista Rai Tiziana Alla, colpevole di avergli ricordato i ripetuti impacci stagionali nel gioco coi piedi, gronda “alibismo”: il dar le colpe al destino e alla malasorte, o ancora peggio difendersi dalle mestizie del presente sbandierando i vecchi crediti del passato, è il malconcio rifugio di chi non sa spiegarsi i propri errori ed è perciò condannato a ripeterli. E quindi no, non è vero che non andremo in Qatar per colpa dei rigori sbagliati da Jorginho, o per il pareggio a settembre contro la Bulgaria “che se la rigiochi altre dieci volte la vinci undici”, o per colpa dei club italiani cattivoni che non fanno giocare i giovani e li costringono a emigrare in Svizzera.

 

Un bagno di umiltà, contro la presunzione che ogni tanto riaffiora come un tic, per esempio in quei tentativi sempre un po' trasandati di impostazione dal basso che ogni volta fanno salire la pressione al nostro portiere. Un bagno di umiltà che serva a riconoscere i nuovi leader dell'ennesima rifondazione, che non sono per forza i giocatori più forti tecnicamente, e dia ascolto ai valori di un campionato colpevolmente trascurato fino a marzo per proseguire con la litania degli Emerson Palmieri. Serviranno allo scopo, tempreranno lo spirito i mesi di lungo nulla che ci attendono fino a Natale: benché la classifica del girone di Nations League ci dia ancora speranze di primo posto, il 2022 culminerà nell'autunno del nostro scontento, quando le giornate saranno più corte e per sfuggire al supplizio di Galles-USA, Giappone-Costa Rica e Polonia-Arabia Saudita non potremo cercare refrigerio in spiaggia o piscina.

 

E poi, se avanza tempo, rispolverare la massima lezione del più grande commissario tecnico della storia dello sport italiano: Julio Velasco. “Quando uno schiacciatore mediocre schiaccia fuori, qual è la prima cosa che fa? Dà la colpa al palleggiatore che gli ha alzato male la palla. Quindi il palleggiatore, sentendosi attaccato, cosa fa? Dà la colpa alla ricezione che è stata sbagliata, troppo corta o troppo lunga. A sua volta il ricevitore si gira per cercare qualcuno su cui scaricare la responsabilità e vede il muro della palestra. E allora mica può dare la colpa al battitore avversario che ha servito troppo bene, mica può chiedergli di servire peggio... e allora dice di essere stato accecato da un faretto sul soffitto. E quindi, quando uno schiacciatore mediocre schiaccia fuori, è colpa dell'elettricista”. Ok, era pallavolo, ma va bene lo stesso. È stata un'annata lunga e dolorosa, ma adesso riaccendiamo la luce.