PUBBLICITÁ

L’arte dell’essere romanisti. La goduria a Tirana spiegata a chi non la capisce

Francesco Stocchi

Feste pazze e una vittoria nata da una sconfitta, quella del 1984, quando la Roma perse, alla sua primissima partecipazione, un’altra finale europea, una partita che tra i tifosi si sa che “non si è mai giocata”

PUBBLICITÁ

La vittoria della Roma nella Conference League contro gli olandesi del Feyenoord raccoglie tutti quegli incantevoli squilibri di un rapporto unico tra club e città. Sui giornali (sfera pubblica), nei rapporti con chi vede “la questione” da fuori (sfera privata) si è cercato di affidarsi alle statistiche per cercare di dare senso all’esplosione di gioia collettiva che questa vittoria ha generato. Ma non è la certezza dei numeri a poter spiegare nulla. “Ci sono i tifosi di calcio… e poi ci sono i tifosi della Roma”, disse un giorno Agostino Di Bartolomei, compianto capitano, figura di riferimento per chi riassume nell’identificazione con la squadra la propria appartenenza a una collettività che trascende il senso di sport, ponendosi in una linea di continuità temporale, lì dove tutto è storia, perfino il senso di futuro. In una città che si erige e si sviluppa sulla stratificazione del passato, unendo nel tempo sacro e profano, cronaca e leggenda dove anche il caso trova dimora nella ragione.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


La vittoria della Roma nella Conference League contro gli olandesi del Feyenoord raccoglie tutti quegli incantevoli squilibri di un rapporto unico tra club e città. Sui giornali (sfera pubblica), nei rapporti con chi vede “la questione” da fuori (sfera privata) si è cercato di affidarsi alle statistiche per cercare di dare senso all’esplosione di gioia collettiva che questa vittoria ha generato. Ma non è la certezza dei numeri a poter spiegare nulla. “Ci sono i tifosi di calcio… e poi ci sono i tifosi della Roma”, disse un giorno Agostino Di Bartolomei, compianto capitano, figura di riferimento per chi riassume nell’identificazione con la squadra la propria appartenenza a una collettività che trascende il senso di sport, ponendosi in una linea di continuità temporale, lì dove tutto è storia, perfino il senso di futuro. In una città che si erige e si sviluppa sulla stratificazione del passato, unendo nel tempo sacro e profano, cronaca e leggenda dove anche il caso trova dimora nella ragione.

PUBBLICITÁ

 

Ed è proprio l’antica tradizione romana dei giochi a ricordarci che la loro diffusa popolarità deriva dai ludi funebri greci che dovevano onorare la morte di un personaggio importante. Vita e morte, concetti universali che sfuggono alla gabbia del razionale esorcizzati nella celebrazione del gioco. Così nacquero i luoghi adibiti ai giochi come il Circo Massimo, il circo di Massenzio sulla via Appia, il circo di Nerone, situato nell’area dove ora sorge la basilica di San Pietro (casualità?) e, il più grande anfiteatro del mondo, il Colosseo. Vita e morte, senso e casualità. Di Bartolomei si tolse la vita il 30 maggio del 1984, esattamente dieci anni dopo quel 30 maggio 1984 quando la Roma perse, alla sua primissima partecipazione, un’altra finale europea, una partita che tra i tifosi si sa che “non si è mai giocata”. Tentativi sordi per esorcizzare maldestramente gli esiti di un sogno collettivo così carnale da essere già realtà, perché per un popolo bulimico di emozioni, i significati erano divenuti troppi.

 

PUBBLICITÁ

E la vittoria di mercoledì sera riparte proprio da quel 1984 per dare “un calcio alle paure” di un evento che ha delineato l’arte di essere tifoso della Roma. Una modalità che nasce non da trionfi ma dalla madre delle sconfitte, a Roma, sotto i propri occhi, dentro casa tua. Quella notte impossibile pensare per un bambino di otto anni di recarsi allo stadio, ma ricordo che la bandiera cucita dalla mamma era sempre nella cartella della scuola e il giorno della partita l’impassibile maestra si addolcì, invitandomi a appendere nella classe la stoffa colorata di giallorosso, esponendola a tutti, l’intimo che si offre al collettivo. Perché nella città in attesa sarebbe stato una forzatura parlare di altro, una pentola a pressione che finì per scoppiare. Il tifo come un antidoto alla paura del guardare avanti, al timore di sentirsi soli, abbracciando la filosofia del noi davanti all’io e ritrovarsi in uno stato comune che elude il tempo, mantenendo viva quella capacità emotiva propria ai bambini. Dopo quell’interminabile partita, quella notte del 30 maggio 1984, incollato a un televisore in bianco nero da undici pollici, scoppiai in un pianto incontrollato, riuscendo solo a dire “perché?”. C’era dell’irrazionalità in un risultato che non trovava spiegazione per chi fosse stato a Roma nei giorni, settimane precedenti. Qualcosa non tornava.

 

Da quel momento una strana reazione s’impadronì dei tifosi, carica del proporzionalmente inverso per cui meno si vince e più si accresce l’affetto intorno a qualcuno che ha bisogno, che poi è il riflesso del popolo stesso. Quarant’anni dopo, l’attesa di questa finale è durata 20 giorni, dalla semifinale vinta contro gli inglesi del Leichester. A seguito del fischio finale l’emozione ha sconfinato di nuovo oltre i limiti del razionale. Abbiamo acquistato i biglietti d’aereo per Tirana, sede della finale, per i biglietti della partita si capirà, “l’importante è esserci tutti” perché il rito non è condiviso non è tale. Ed è stato quel bisogno di collettività condivisa che ha fatto tifare a Tirana, così come a Roma, dove 50mila persone si sono recate allo stadio Olimpico per guardare la partita alla televisione, insieme. Un qualcosa di mai visto che non trova spiegazioni, forse perché non c’è neanche bisogno di cercarle se non in un’identificazione corale del senso di reciprocità simbiotica squadra-popolo.

 

Se la gente urla “combattete per noi”, è la squadra nella persona dell’autoproclamato condottiero Mourinho, che chiede ai tifosi “giocate con noi”. Percepite dall’esterno, queste manifestazioni sono la normalità che si macchia di eccessi quali dinamiche sportive che diventano esistenziali, profanazioni del termine “amore”, infantilismo romantico, fanatismi che distolgono da ciò che conta realmente. Ma è proprio l’emozione della normalità a dare sapore speciale a un sentimento non chiaramente delineato perché intimo che tocca l’individualità di ognuno che si sublima nel rito collettivo. Questa vittoria della Roma è per chi non aveva bisogno di questa vittoria per tifarla, abbracciando la rassicurazione che tanto “c’è sempre la prossima partita”. Così disabituati a vincere, incapaci a difendere quanto ottenuto ma solo propensi al folle sogno della conquista. D’altronde è l’intensità che conta. Come disse Giorgetto, indimenticato tifoso romanista, “abbiamo vinto poco… però è bastato vincere una volta per dire che avevamo vinto più di tutti!”.

PUBBLICITÁ
Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ