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Giro d'Italia. Un castellano chiamato van der Poel

Giovanni Battistuzzi

A Visegrád, Mathieu van der Poel vince la prima tappa del Giro davanti a Biniam Girmay. 

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I castelli stanno in alto per essere scomodi e sono scomodi perché stanno in alto. Mica troppo, il giusto, abbastanza per osservare bene ogni cosa che sta loro attorno. I castelli sono nati perché il potere non era abbastanza solido, abbastanza rassicurante, in special modo per chi il potere lo deteneva. Altrimenti pure i potenti se ne sarebbero stati giù, a valle, non di solo colpo d’occhio vive il potere, ma anche di comodità.

 

I castelli sono un richiamo, sono un sussurro all’orecchio che dice “raggiungimi”. Hanno il fascino del remoto, del distante, dell’inaccessibile, come certe montagne. Sono un moto di movimento. Si fa fatica a resistere loro.

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Luigi Marchisio, che vinse il Giro d’Italia del 1930, disse a Orio Vergani, qualche anno dopo il suo ritiro, che imparò ad andare in bicicletta per una ragione che con il ciclismo non aveva nulla a che fare: riuscire a raggiungere il Castello di Moriondo, qualche chilometro appena dal suo paese, Castelnuovo don Bosco. Una volta raggiunto, c’aveva preso talmente gusto a pedalare che non scese più di sella.

 

Pure il ciclismo, come l’uomo, è attratto dai castelli. Spesso li evita perché le corse sono diventate un tale carrozzone di auto e moto al seguito, che le strade non consentono più l’accesso. Ma quando le condizioni lo permettono ecco le gare puntano i castelli, si avvicinano, li accarezzano. A volte li superano in altezza, perché in fondo il ciclismo è fatto di uomini e ci si può far niente contro la voglia di altro, di meglio, di più.

 

Avrebbero forse preferito un castello come fondale al loro arrivo i corridori oggi al Giro d’Italia, piuttosto di una pista da bob su rotaia. Dà sempre un tono all’ambiente avere un castello o una torre a far da sfondo a una vittoria. Tant’è. Gli spazi erano più accoglienti un chilometro dopo. O forse era solo un modo per non far dire (o scrivere) di un arrivo regale. Se fosse così, sarebbe stata un’ottima idea.

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Probabilmente di tutto questo se ne sono fregati Mathieu van der Poel e di Biniam Girmay. A loro contava poco dello scenario, ad andare forte ci si fa mai caso. Per questo, di certe cose, è meglio parlare con gli ultimi, sono i soli corridori che hanno ricordo dei luoghi che hanno attraversato, non di tutti, ma quanto meno di quelli attraversati senza l’assillo del tempo.

 

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A Visegrád, Mathieu van der Poel ha vinto la prima tappa del Giro d’Italia 2022, ha vestito la maglia rosa, ha compreso l’effetto che fa, il Giro, il rosa, il contorno. Avrebbe voluto gustarsi tutto questo anche Biniam Girmay, ma l’olandese è uno che si batte difficilmente in un arrivo del genere, in salita ma non troppo, abbastanza comunque per disseminare lungo l’ordine d’arrivo i velocisti. Tra i primi ne era rimasto uno solo, Caleb Ewan, ma s’è eliminato da solo. Va sempre a finire così: quando un uomo con la ruota davanti, tocca un uomo con la ruota di dietro, l’uomo con la ruota davanti è un uomo a terra. Ed Ewan l’asfalto l’ha assaggiato e non l’ha trovato per niente buono. Anzi, decisamente indigesto. Stessa sensazione di chi sul divano ariosteo si gustava un insperato tris al fantaciclismo, Bikoo, per poi vederselo sottratto. 

   

  

Da Budapest a Visegrád è un attimo, i corridori c’hanno messo più di quattro ore e mezza. Il bello del ciclismo è anche questo: la strada diretta non è per forza la migliore, anzi spesso non lo è affatto.

 

Il castello di Visegrád i corridori l’anno iniziato a puntare che mancavano una cinquantina di chilometri all’arrivo. Prima se l’è presa comoda, ha allungato all’inverosimile il percorso, s’è concessa una scampagnata per le campagne che circondano Budapest. Si può mica andar di fretta già alla prima tappa.

 

E così gli organizzatori hanno organizzato ai corridori un tour agreste in Ungheria. Belle zone, boscose il giusto, vigneti generosi. Si beve bene nel Mór. Ci fanno un riesling di tutto rispetto e un Cserszegi fűszeres, che è una sorta di Traminer ungherese, che vale una bevuta. Se la sarebbero fatta volentieri pure Mattia Bais e Filippo Tagliani della Drone Hopper. Centottanta chilometri di fuga a coppia meriterebbero almeno un bicchiere. Nelle borracce moderne però ormai non c’è più spazio per qualcosa che non siano acqua e zuccheri.

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