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Sonny Colbrelli andata e ritorno dalla vita

Marco Pastonesi

Quaranta giorni dopo l'attacco cardiaco alla Volta a Catalunya, il campione italiano e vincitore della Roubaix del 2021 parla con il Foglio: "Quella data me la sono segnata nel calendario della mia vita, come se fosse un nuovo compleanno. La bici mi ha insegnato a cadere e rialzarmi e a mantenermi umile”

È andato e tornato. È andato di là e tornato di qua. È andato di là, ciclisticamente si potrebbe definire un surplace, ed è tornato di qua, ciclisticamente si potrebbe immaginare una volata. Era il 21 marzo, era a Saint Feliu de Guixols in Spagna, era la prima tappa della Volta Ciclista a Catalunya: secondo al traguardo della corsa, ma primo in quella della vita.

Quaranta giorni dopo, ecco Sonny Colbrelli.

 

Come si sente: sopravvissuto o rinato?

“Sopravvissuto. Un viaggio di andata e ritorno, in cui l’andata è imprevista, ma il ritorno per nulla previsto o scontato o garantito o assicurato. Però mi sento anche rinato. Non tutti i mali vengono per nuocere, mi dicevano i miei genitori quando ero piccolo e qualcosa girava storto, un’influenza a casa, una foratura in gara, un votaccio a scuola. Adesso so che è così: non tutto il male viene per nulla. Quella data me la sono segnata nel calendario della mia vita, come se fosse un nuovo compleanno, e aspetto che arrivi per vedere se festeggiarlo oppure no. Ma ogni giorno guardo avanti. E sono pieno di fiducia”.

 

Si sente più arrabbiato o più grato?

“L’arrabbiatura c’è stata, e un po’ rimane ancora, ma la gratitudine s’ingigantisce e si moltiplica di giorno in giorno. Guardo il cielo, guardo la terra, guardo la strada, e sono grato. Respiro profondamente, e sono grato. Vedo mia moglie e i miei bambini, sento i miei genitori e i miei amici, e sono grato. Accarezzo la sella della bici: e ho sempre voglia di saltarci su”.

 

Il primo mese è stato papà a tempo pieno?

“Vittoria compirà quattro anni il 24 ottobre, Tommaso due il 3 maggio. Eppure non sono mai stato così tanto tempo con loro. Prima staccavo un mese, in novembre, e anche in quel mese correvo di qua e di là, fra mille impegni e appuntamenti, perché non sono mai stato capace di dire di no a nessuno se non perché non sono mai stato capace di sdoppiarmi. Stavolta, i miei figli, me li sono proprio goduti. E, lo confesso, non è stato facilissimo. Perché bisogna avere una pazienza e un’attenzione infinite. E mamma Adelina mi batte per distacco”.

 

Il secondo mese è stato papà a tempo determinato?

“Mi sono ritagliato qualche spazio. Ho cominciato a camminare, blandamente. Ho ricominciato a pedalare, portando a spasso la bicicletta. Ho ricominciato anche ad andare in palestra per fare un po’ di tapis roulant e di cyclette, senza mai forzare, e per fare qualche esercizio per il corpo, anche qui senza mai forzare. Ma è un modo, è il mio modo, per tranquillizzarmi, per rasserenarmi, per entrare in sintonia e in armonia anche con la mia testa. Di solito cammino e pedalo con qualcuno: mio fratello, gli amici, i colleghi, l’altro giorno con ‘Kuba’ Mareczko, a cui prima, in allenamento, tiravo il collo, ricordandogli – a lui, ma anche a me – di mangiare meno e allenarsi di più”.

 

Che cosa ha detto ai suoi bambini?

“Che il papà si era ammalato, che è stato in ospedale, che ha subito un intervento e che adesso sta bene. I primi giorni, quando mi saltavano addosso, cercavo istintivamente di difendermi, ora sono più disinvolto. Vittoria e Tommaso non mi hanno mai fatto domande. Sono felici di trovarmi a casa. E spesso mi dicono: adesso che sei a casa, potremmo andare al Cavallino Bianco. È un parco giochi”.

 

Dimostrazioni di affetto?

“Tantissime, continue, speciali. Chi scrive, chi telefona, chi digita. Chi racconta di avere avuto lo stesso problema, chi chiede informazioni e consigli, chi mi incoraggia e mi spinge, chi mi invita come se niente fosse. E poi tanti colleghi e compagni, in particolare quelli della Bahrain, da Caruso a Mohoric, da Bilbao a Landa. Ma sotto sotto tante premure non mi sorprendono. Perché io sono sempre stato gentile e disponibile con tutti. E gentilezza e disponibilità tornano indietro”.

 

E ringraziamenti speciali?

“Per Adelina e la mia famiglia, innanzitutto. C’erano prima, ci sono adesso, ci saranno sempre. Il dottor Zaccaria, che mi ha seguito come se fossi suo figlio. E la squadra, la Bahrain-Victorious, che non mi ha mai lasciato solo, come diciamo noi, all’aria, al vento”.

 

Com’è stato vedere le corse in tv?

“Ho cominciato con la Milano-Sanremo, due giorni prima del mio black-out. Mi sono esaltato, perché Mohoric, spesso il mio compagno di stanza, ha fatto quello che diceva di voler fare fin da dicembre, cento giorni prima della corsa: gettarsi a tutta giù dal Poggio. Lo ha fatto, rischiando, ma trionfando. Il ciclismo, a volte, può sembrare roba da matti”.

 

Il Fiandre?

Van der Poel è un campione, il suo attacco da lontano così imprevedibile e così emozionante sembra da corse di una volta, quelle in bianco e nero”.

 

La Parigi-Roubaix?

“Il giorno di Pasqua, trascorso in famiglia, con i miei genitori. La mia corsa, quella vinta un anno fa, quella che mi ha dato consapevolezza, quella che fa entrare nella storia. Diversamente dalle altre corse, stavolta accendevo e spegnevo la tv, nervoso, teso, forse un po’ anche invidioso e geloso. Avrei voluto essere lì. Ero il campione uscente, avrei dovuto indossare il dorsale numero 1. Poi, la tv, l’ho tenuta accesa. E quel finale, con la vittoria di van Baarle, mi ha stupito. Ma la Roubaix stupisce sempre: fino alla linea non si sa mai”.

 

E la Liegi-Bastogne-Liegi?

“Evenepoel si è dimostrato il più forte. Ma la mia squadra si è comportata da grande squadra”.

 

Come vede le corse in tv?

“Sul divano, seduto a destra, il mio posto. Da solo. Mangiando, e poi cercando di resistere alla tentazione di mangiare. Con un misto di adrenalina e nostalgia, di piacere e malinconia. E saltando da un canale all’altro, curioso di ascoltare i commenti dei telecronisti e degli opinionisti. Nessuno in particolare, ma tutti. Tutti bravi, davvero. E quando mi citano, mi fanno venire i brividi”.

 

Il Giro d’Italia?

“Non avrei dovuto correrlo, e non lo correrò, quindi avrò meno nostalgia che per le classiche del Nord. Lo seguirò alla tv e qualche tappa la vedrò anche sulla strada, alla partenza o all’arrivo, e quella del 24 maggio, da Salò all’Aprica, vorrei viverla con i miei compagni di squadra. Magari stando con loro anche il giorno prima e il giorno dopo”.

 

Con il cuore nel fango” (Rizzoli), il suo libro s’intitola così. Che cosa prova a raccontarlo, spiegarlo, rileggerlo?

“Il commento più bello è quello di chi dice che leggerlo è come sentire me, la mia voce, perfino il mio accento, le mie espressioni, le mie parole, le mie emozioni, i miei ricordi. Il libro racconta la storia della mia vittoria alla Parigi-Roubaix 2021, quasi chilometro per chilometro, quasi cubetto di pavé per cubetto di pavé, ma anche quello che è successo prima e quello che è successo dopo la corsa, e tornando indietro nel tempo, la prima bici, la prima corsa, la prima caduta, la prima delusione e la prima gioia. Ogni corridore ha una bella storia da raccontare: la sua. E la mia è quella di un bambino preso in giro perché grasso e con gli occhiali, e poi di un ragazzo che d’inverno andava a lavorare in fabbrica, e poi di un gregario con licenza di vincere, e poi di un anno magnifico, il 2021, con la vittoria al campionato italiano, e quella al campionato europeo, e quella alla Parigi-Roubaix”.

 

Il 5 maggio farà la sua prima apparizione ufficiale: a Reggio Emilia.

“Presenterò il mio libro nella Sala del Tricolore, dove è nata la bandiera nazionale. E per me, campione italiano in carica, dunque con la maglia tricolore, è un’occasione importante, un privilegio particolare, una specie di ritorno a casa. Ci sono bambini che, raccogliendo una borraccia lungo la strada, diventano corridori. Come sarebbe bello se lo facessero anche leggendo il mio libro a scuola o in biblioteca o con i genitori”.

 

Sonny, che cosa le ha insegnato la bicicletta?

“A stringere i denti, ma anche a sorridere. A cadere, ma anche a rialzarmi”.

 

E il ciclismo?

“A comportarmi bene, a essere e a mantenermi umile, a pedalare fino al traguardo, e a sapere che dopo il traguardo c’è un’altra partenza perché non si è mai arrivati”.

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