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I Rams che vincono il Super Bowl ci dice che si è perdenti sempre fino a prova contraria

Roberto Gotta

La vittoria della franchigia di Los Angeles è quella di chi non voleva perdere tempo a costruire a lungo termine, un esempio di metodicità e precisione

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Il senso di svuotamento che prende chi gioca un Super Bowl e persino chi vi assiste, nel momento in cui cadono dal soffitto i coriandoli celebrativi, segna la fine di una stagione e unisce vincitori e vinti, pur divisi dal diverso esito. Nella prima mattinata italiana i Los Angeles Rams si sono svegliati campioni Nfl, dopo la vittoria 23-20 sui Cincinnati Bengals al SoFi Stadium, il loro stadio di casa in cui per l’occasione erano però ufficialmente squadra ospite, dunque con spogliatoio e linea laterale diversi dal solito. Hanno vinto segnando il touchdown del sorpasso a 1’25” dalla fine, con un lancio del quarterback Matt Stafford al ricevitore Cooper Kupp, al termine di un possesso di palla durato 4’48”, il più lungo della partita: un esempio di metodicità e precisione nel momento più difficile della gara, ed è anche per questo che Stafford è arrivato, poco più di un anno fa, dopo 12 stagioni a Detroit. Trentaquattro anni compiuti da otto giorni, Stafford aveva un record poco invidiabile, quello del maggior numero di yard conquistate con i lanci senza aver mai preso parte a un Super Bowl, dato che con i Lions aveva giocato – e perso – solo tre partite di playoff. Il suo trionfo è avvenuto sotto lo sguardo di un grande amico, un altro atleta che ha dovuto attendere anni per vincere il massimo trofeo nel proprio sport, passando attraverso i cespugli spinosi delle medesime critiche: Clayton Kershaw, campione Mlb (baseball) nel novembre del 2020 con i Los Angeles Dodgers nonché compagno di squadra (nel football) di Stafford al liceo, in Texas.

La stupidità dei giudizi basati sul temporaneo, sull’effimero: si è perdenti, nello sport, fino a che non si dimostra il contrario, e in quel momento chi spara opinioni si gira e si rende conto di non aver capito nulla.

La vittoria dei Rams è quella, di cui si è costantemente discusso in America, di chi non voleva perdere tempo a costruire a lungo termine: Stafford è stato solo l’ultimo degli acquisti, dopo il cornerback (difensore) Jalen Ramsey, il linebacker esterno Von Miller, il ricevitore Odell Beckham Jr. Per averli, i Rams hanno ceduto posti di scelta dei prossimi draft (il meccanismo con cui i team ottengono i diritti sui giocatori usciti dall’università) e dunque non potranno scegliere i migliori talenti, ma la loro scommessa è stata premiata da un titolo che ha un’importanza immensa. Perché i Rams sono tornati a Los Angeles solo da sei anni, dopo averne trascorsi 21 a St.Louis. Vi erano fuggiti dopo la stagione 1994, senza molti rimpianti, perché c’erano problemi relativi ad uno stadio non più adeguato e non c’era la volontà, in una California sempre molto restia a concedere benefici a quelle che di fatto sono multinazionali, di destinare fondi pubblici alla costruzione di un nuovo impianto.

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A St.Louis avevano pure vinto un titolo, nel Super Bowl del 2000, ma dopo qualche tempo, in un’America che divora edifici nuovi e li risputa decrepiti dopo pochi anni, anche lì era nata l’esigenza di ammodernare e il proprietario, Stan Kroenke, ne aveva approfittato per concepire il ritorno a Los Angeles, promettendo di costruire lo stadio con i propri fondi, circa cinque miliardi di dollari. Il titolo vinto servirà a riavvicinare i tanti tifosi che nel frattempo avevano guardato altrove e si erano disamorati, tanto da essere quasi in minoranza nella semifinale contro San Francisco giocata in casa.

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Domenica sera, anche per via delle norme Nfl sulla distribuzione dei biglietti, si era sul 50 per cento a testa, perché l’attesa degli appassionati locali si scontrava con la frenesia di quelli di Cincinnati, al Super Bowl per la prima volta dal 1989 e però tornati a casa sconfitti per la terza volta in tre finali. Quel sorpasso avvenuto alla fine non ha lasciato tempo per una rimonta, nonostante il coraggio del giovane ed eccellente quarterback Joe Burrow, figlio di scelte dirigenziali che sono l’antitesi di quelle dei Rams: non inseguire talenti costosi e di breve impiego temporale – anche se la scorsa estate non si sono lesinati dollari nell’acquistare difensori – ma programmare la crescita poco alla volta grazie ai giocatori provenienti dal college. È per questo che il futuro a medio termine dei Bengals pare più solido di quello degli avversari, dato che persino il coach dei Rams, Sean McVay, più giovane vincitore di un Super Bowl con i suoi 38 anni, potrebbe smettere anzitempo per fare il commentatore televisivo. Nel caso, avrà uno spettatore interessato e molto vicino a noi: Maximilian Pircher, il ragazzo di Bressanone che dall’estate scorsa fa parte dei Rams, essendo stato scelto dalla Nfl nell’ambito del suo programma di formazione di talenti stranieri. Ancora inesperto, Pircher non è mai stato inserito nella rosa per una partita ma sta crescendo, e ora è comunque ufficialmente campione pure lui.

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