Il Foglio sportivo

Vogliamo davvero far parlare gli arbitri?

Giuseppe Pastore

Prima di metterci la faccia è meglio che valutino bene i pericoli e si preparino

"È tutto chiaro?”, ringhia il colonnello Jack Nicholson al giovane avvocato Tom Cruise durante l’interrogatorio in Codice d’onore, un film di culto per chi ha pensato di intraprendere la carriera forense anche solo per mezza giornata. “Cristallino”, risponde lui, impassibile. Codice d’onore l’ha firmato ormai trent’anni fa il grande Aaron Sorkin, un autore che conosce bene quanto può essere lunga la distanza tra le parole e il significato implicito che sottendono. Gli metteremmo una penna in mano e gli chiederemmo di scrivere una sceneggiatura sulle due parole che stanno mandando in tilt Var e classe arbitrale e rischiano di condurre in malora il campionato più appassionante del decennio: “Chiaro ed evidente”. In ogni modo può essere definito l’operato degli arbitri negli ultimi due mesi, tranne che chiaro ed evidente. Chiaro ed evidente è l’errore che, da protocollo internazionale, induce il Var a richiamare l’attenzione dell’arbitro di campo e consigliargli (o imporgli) la on field review. Il non-fischio sull’intervento di Dumfries su Alex Sandro, Inter-Juventus, era un chiaro ed evidente errore? Tanto quanto il non-fischio per il contrasto D’Ambrosio-Bajrami, Empoli-Inter, tre giorni dopo?


In un caso il Var ha cambiato la decisione di Mariani, nel secondo è rimasto silente sul mancato intervento di Chiffi. A questo punto entrerebbe nella stanza un portavoce dell’AIA e si affannerebbe a spiegarci che non è proprio così, che gli episodi dubbi non sono mai un copia-incolla e che come nelle vignette della Settimana Enigmistica esistono almeno cinque differenze tra un intervento e l’altro. Alla fine di un’appassionata autodifesa della categoria, questo portavoce riuscirebbe forse ad avere ragione, se non fosse per un piccolo particolare: il grande pubblico non apprezza i cavilli e molto spesso nemmeno li capisce. Da qui la diffusa antipatia per avvocati, magistrati, notai, arbitri.


Agli occhi del pubblico, l’arbitro è un uomo solo. Nessuno tifa per l’arbitro, a maggior ragione se ora il supporto tecnologico ha fatto in modo che “non possa più sbagliare”. Come si sostiene da più parti, l’unico modo dell’arbitro per farsi voler bene – anzi no, non esageriamo: per farsi accettare – dal pubblico è mostrarsi chiaro e trasparente (“cristallino!”). Da qui le ripetute invocazioni a parlare e spiegare, tutto. Da Gasperini si è levata la richiesta più pressante, ringhiata in tv un giorno che era particolarmente di malumore, per aver perso due punti all’ultimo minuto ed essere stato espulso senza motivo (dice lui). “Che ci mettano la faccia”. Ma conosciamo troppo bene i nostri polli per non accorgerci della botola nascosta nel fogliame che si spalancherebbe alla prima dichiarazione inesatta o semplicemente poco convincente di uno di quei “ragazzini” (cit. Gasp) che il designatore Rocchi sta coraggiosamente distribuendo su moltissimi campi di Serie A – e già qui, dare del “ragazzino” a un uomo di 37 anni come l’arbitro Marinelli la dice lunga sulla predisposizione al dialogo... Quanti sono gli arbitri che oggi reggerebbero un confronto a caldo con un Gasperini o uno Spalletti o un Mourinho su di giri, per tacere di altri allenatori minori all’apice del vittimismo, con tutto il pubblico di tifosi che si trascinerebbero dietro? Ricordate: l’arbitro è un uomo solo.

 

Due settimane fa, nell’intervallo di Juve-Roma, Orsato – che dovrebbe essere quello più preparato, invece cade in un’imboscata dietro l’altra – tentò di spiegare a Cristante le ragioni del vantaggio non concesso dopo il fallo di Szczesny su Mkhitaryan. Peccato che lo fece citando una norma che non esiste (“Il vantaggio sul rigore non si dà mai”) per poi tentare di uscire dall’angolo con una battuta non felicissima (“Date la colpa a me se avete sbagliato il rigore?”). Punto numero due: l’arbitro che intende comunicare al grande pubblico dev’essere empatico e simpatico. Deve resistere alla tentazione di spiegarci la lezione o peggio fare la morale, ma deve porsi sul livello del tecnico (e dei relativi tifosi) che lo sta contestando, quasi sempre un uomo stressatissimo. Deve ricordarsi che il riferimento non è il tale allenatore o il tale presidente, ma il pubblico. Se un arbitro parla non è per un favore ai club, ma agli spettatori.


Gli arbitri italiani sono pronti a fare questo oggi, adesso? Da un’intervista al Mattino di Fabio Maresca, arbitro internazionale di Napoli: “Mettersi sulla difensiva può sembrare un atteggiamento permaloso ma non lo è. Se vengono in cinque a protestare, non ci può essere dialogo”. Maresca è l’arbitro che l'anno scorso ha fatto infuriare in momenti diversi l’Inter, la Roma, Ibrahimovic espulso a Parma probabilmente per una frase malintesa. In molti lo ritengono un direttore di gara arrogante, sensazione che rischia di amplificarsi davanti a una telecamera nei minuti successivi a un episodio “caldo”. Gli arbitri che ammettono un errore, solitamente già pochissimi, lo fanno dopo che hanno smesso (di recente, Calvarese) o comunque a distanza di anni, come ha fatto il solito Orsato tre anni dopo il fattaccio di Inter-Juve 2018. Il Concetto Lo Bello che nel 1972 si presentò alla Domenica Sportiva a cospargersi il capo di cenere dopo uno svarione in Juve-Milan di poche ore prima è un’eccezione irripetibile – e poi era Lo Bello... Questa splendida idea che ci trasformerebbe di colpo nell’NBA del pallone è destinata a lungo a rimanere una pia illusione. Servono doti oratorie per nulla banali e una sincera voglia di collaborazione dell’ambiente circostante, merce rara nel veleno quotidiano dei nostri fine settimana. Bersagliati di frecce come San Sebastiano, gli arbitri oggi faticano a comunicare: lo dimostrano i continui equivoci con gli allenatori (ultimo episodio, Spalletti-Massa dopo Roma-Napoli) o le dichiarazioni lunari con cui Rocchi ha liquidato una domenica per nulla serena ma definita “ottima”, in cui la disparità di interpretazione di episodi equivalenti era sotto gli occhi di tutti.


Ci sono vari modi per questionare sugli arbitri. Uno è pretendere chiarezza, coerenza nel metro di giudizio, trasparenza anche extra-campo (che fine ha fatto l’esposto alla Procura di Roma di due ex arbitri di Serie B, poi reintegrati, che a maggio sollevarono pesanti accuse sulla meritocrazia dei criteri di valutazione alla base degli “avanzamenti di carriera”?). Il modo più praticato è il peggiore, per fortuna in lento declino con l’avanzare dell’età media di chi è abituato a ventilare complotti e piangere oceani di vittimismo solo per condizionare la partita successiva. Ma se la richiesta di “metterci la faccia” fosse più voglia di un’ulteriore gogna che desiderio di apertura? Così, prima di fare il grande passo, gli arbitri italiani dovrebbero pensarci bene, perché rischiano di sotterrare definitivamente la propria credibilità gettandosi in pasto a un sistema mediatico in gran parte prevenuto, sbriciolato in tanti piccoli interessi regionali che si danno contro l’un l’altro. Si inizi il martedì mattina con una spiegazione sul web di tutti i casi controversi della giornata appena conclusa, senza insabbiare nulla e senza facili trionfalismi fuori luogo alla Rocchi. È vero, “dobbiamo aiutare gli arbitri”, litania che ripetiamo poco convintamente da quarant’anni pretendendo di cancellare con un colpo di spugna tutti gli episodi in cui la classe arbitrale non ci prova nemmeno ad aiutarsi da sola. E torniamo al punto di partenza: sì, il diabolico protocollo sembra fatto apposta per lasciare la vaghezza e preservare l’autorevolezza di una categoria a cui forse non sta simpatica l’idea di retrocedere da arbitri a notai: video killed the referee stars. Cari arbitri, vi sembra un sospetto infondato e un po’ antipatico? Benissimo: che grande occasione per dimostrarlo, e per smentirci.

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