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il foglio sportivo

Billie Jean King è l’altra faccia del tennis, l’anti-Open di Agassi

Roberto Perrone 

L'ex tennista racconta l’infinita “battaglia dei sessi” e quanto fosse rompiscatole

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"Sapevo difendermi” scrive a un certo punto Billie Jean King e questo poteva essere un bel titolo alternativo per la sua autobiografia, “Tutto in gioco”, pubblicata dalla Nave di Teseo. A noi di una certa età, ma non solo, il nome di Billie Jean King porta subito alla “battaglia dei sessi” con Bobbie Riggs. La sfida, vittoriosa per lei, del 1973 a Las Vegas, che fece epoca, scalpore, e fu vista da 30 mila persone sul campo e da 90 milioni in televisione.

Billie Jean King non è stata solo la protagonista di una rivoluzione umana e culturale, è stata una grande tennista, un’atleta straordinaria che ha lasciato un segno nello sport. Una donna determinata che ha ottenuto quello che voleva, fin da quando osservò Althea Gibson, la tennista nera che vinse cinque titoli del Grande Slam facendo da apripista contro la segregazione razziale. “Avevo appena visto quello che desideravo diventare. E se riesci a vederlo puoi diventarlo”. 

La sua storia sportiva si intreccia con la sua lotta per la giustizia e l’uguaglianza, di qualsiasi tipo, non solo per le donne o per i gay. Merito e talento: solo questo deve essere il criterio di giudizio.

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Billie Jean King viene folgorata dalla consapevolezza della sperequazione esistente a neanche dieci anni, quando i genitori la portano alla sua sua prima partita di baseball. Scopre che i professionisti sono solo i maschi. “Era la prima volta che mi rendevo conto che non importava quanto fossi brava, la mia vita avrebbe avuto delle limitazioni perché ero donna”. Precoce.

A nove anni non è un po’ presto per sentirsi discriminata? Però il carattere si vede già a quest’età e Billie Jean King è sempre stata una rompiscatole fin da quando insolentisce il suo primo allenatore contestando il punteggio del tennis: “15, 30, 40? Non dovrebbe essere 45? E da quando "love" significa zero?”. E poi quando lo costringe a farla battere come i ragazzi. Allora bisogna crederle quando dice: “Fino a oggi la ‘Battaglia dei Sessi’, il mio match contro Bobby Riggs, rimane scolpito nell’immaginario pubblico come il momento per me decisivo dove tutto si è concentrato ed è stato dato fuoco alla miccia. Ma in verità, quella spinta era attiva in me fin da quando ero bambina”.

 

Ci si può fidare di chi è capace di ironizzare sulla propria vicenda sessuale: “Quando mi dichiarai gay nel 1981, gli sponsor mi abbandonarono dalla sera alla mattina. Oggi rido e penso: aspetta un attimo... ora mi pagano per essere lesbica?”. 

Di questa autobiografia va apprezzata, prima di tutto, l’età di chi l’ha scritta. Sì, l’età di una signora non si dovrebbe mai spiattellare, ma Billie Jean King sta per compiere 78 anni (il 22 novembre) e, facendo un piccolo arrotondamento, può entrare nell’aurea regola del grande storico Eric Hobsbawm che, quando pubblicò la sua, a 85, ammonì: “Per scrivere un’autobiografia sincera e completa bisogna aspettare di avere almeno ottant’anni”. Applausi. In un mondo di autobiografie sportive di ragazzini neanche trentenni, una sana eccezione. Un po’ come il percorso di questa eccezionale tennista che ha vinto 12 titoli del Grande Slam in singolare, tutti almeno una volta: Roland Garros (1), Wimbledon (6), Us Open (4), Australian Open (1). Senza contare i doppi e gli altri tornei.

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Il titolo originale è “All in”. Perché non lasciarlo? Rende benissimo l’idea di un’esistenza giocata sempre rischiando, in campo con il suo ottimo gioco a rete e fuori con la sua grinta, rilanciando, buttando sul tavolo tutte le fiches. “All in” è una specie di “anti-Open”, o dopo Open, la bellissima autobiografia di Andre Agassi. Mentre Open è un meraviglioso romanzo di formazione, personale, in cui la vicenda umana del protagonista prende il sopravvento, la storia di Billie Jean King attraversa la seconda metà del Novecento intrecciata alla “Storia”. Ci sono John Kennedy e Martin Luther King, Richard Nixon e Muhammad Ali, Vietnam e fragole e sangue, il ‘68 e i diritti civili. E, rispetto alla storia di Agassi, e di tanti altri tennisti, per marcare un’altra differenza, non ci sono genitori-padroni. Billie Jean comincia a giocare a tennis perché le piace ed è lei a costringere i genitori a comprarle la prima racchetta. “Ami ancora il tennis e ti diverti?”, le chiedono mamma e papà, quando torna dalla sua prima non felice partecipazione a quelli che oggi si chiamano Us Open.

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La pasionaria Billie Jean da ragazza va in chiesa e quando cominciano i suoi primi tour, gira con la Bibbia. “Volevo fare la missionaria”. Come Chrissie Evert, scoprirà. In un certo senso lo è stata. Si ribella alle molestie del padre di un bambino a cui fa da babysitter. Si ribella sempre. Anche alle battute degli amici come Frank Brennan, uno degli allenatori fondamentali nella sua formazione, che passa dal consolarla dopo una sconfitta con Maria Bueno, “non ti demoralizzare, diventerai la numero 1” al buttarle in faccia: “Ci riuscirai perché sei brutta”. Billie Jean commenta: “A quei tempi gli uomini si prendevano regolarmente la libertà di fare commenti sull’aspetto delle donne”. Anche adesso non è che si astengano. Sono solo un po’ più cauti. Passa da “mocciosa egoista” (Alice Marble) a campionessa che confessa: “Tutti i giocatori di tennis che arrivano in vetta, compresa me, vi direbbero probabilmente che detestano perdere più di quanto amino vincere”.

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In un’autobiografia si può essere sinceri poco, un po’, molto. Billie Jean King appare sincera e, sempre seguendo Hobsbawm, la parte più interessante della storia è quella più lontana nel tempo, quella meno pubblica, quella rimasta fuori dai riflettori della fama. Per chi ama il tennis e per chi ha viaggiato un po’ per i tornei è un tuffo nelle emozioni. C’è l’hotel Bailey's, accanto alla stazione di Gloucester Road a Londra, la zona dei tennisti prima che preferissero, per comodità e privacy, affittare le ville vicino all’All England Club. C’è Bud Collins, leggenda del giornalismo, editorialista del Boston Globe, il cronista più famoso della storia del tennis, famoso per i suoi pantaloni alla Arlecchino, che, anno 1961, si avvicina a Billie Jean e a Karen Hantze dopo la vittoria nel doppio, primo trofeo vinto sull’erba più bella del mondo, per intervistarle. Ma “i trofei non si possono mangiare” (copyright Althea Gibson) e quindi Billie Jean cavalca la battaglia per il professionismo con citazione di Jack Kramer, il grande promoter, secondo cui “un giocatore di tennis professionista è solo un dilettante che ha iniziato a pagare le tasse.” C’è la battaglia contro la sperequazione dei compensi tra uomini e donne. Ma sempre senza astio, senza livore. E questo è un grande pregio. Billie Jean è una femminista non incattivita. “Gli uomini australiani mi hanno reso la numero 1” confessa raccontando il suo training a Melbourne. E ci sono, ovviamente, le vicende personali, il matrimonio con Larry King, la dolorosa causa intentatagli dalla sua amante Marilyn, la difficoltà, negli anni '70 e '80, a vivere liberamente la propria sessualità, gli affari riusciti e i fallimenti. Insomma tutto quello che rende un'autobiografia riuscita uno straordinario romanzo. 

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