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Il Foglio sportivo

“Siamo tutti figli di Zanardi”

Fabio Tavelli

L'esempio di Alex dietro ai successi (non solo) paralimpici. Giusy Versace: “Grazie a lui abbiamo trovato il coraggio di reagire”

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Vent’anni fa oggi, l’11 settembre 2001, era un luminoso martedì mattina a New York. Il 15 settembre 2001 era invece un sabato come tanti altri senza sole e con le nuvole basse a nord di Dresda, poco lontano dal confine con la Polonia. Il giorno prima erano scese così tante secchiate d’acqua dal cielo che gli organizzatori si convinsero che per le qualifiche per la griglia di partenza della tappa tedesca del campionato Cart se ne sarebbe parlato un’altra volta. Molti avvenimenti sportivi erano stati cancellati in quei giorni, troppo era ancora lo spavento per quelle due torri colpite e affondate. Non quello sul circuito Lausitzring, addirittura ribattezzato “Memorial american” per segnalare una ulteriore vicinanza con il popolo yankee. A tredici giri dalla fine il destino di Alex Zanardi entra nelle vite di tutti noi che pensavamo quello fosse “soltanto” un pilota di auto. Scoprimmo, dopo un suo lungo e coraggioso viaggio attraverso sofferenze inenarrabili da parte di chi prima di essere trasportato in eliambulanza verso l’ospedale aveva già ricevuto l’estrema unzione, che quel ragazzone emiliano perennemente sorridente sarebbe diventato un punto di riferimento, una fonte inesauribile di coraggio e un portatore sano di quella meravigliosa utopia che è la voglia di vivere. 

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Vent’anni fa oggi, l’11 settembre 2001, era un luminoso martedì mattina a New York. Il 15 settembre 2001 era invece un sabato come tanti altri senza sole e con le nuvole basse a nord di Dresda, poco lontano dal confine con la Polonia. Il giorno prima erano scese così tante secchiate d’acqua dal cielo che gli organizzatori si convinsero che per le qualifiche per la griglia di partenza della tappa tedesca del campionato Cart se ne sarebbe parlato un’altra volta. Molti avvenimenti sportivi erano stati cancellati in quei giorni, troppo era ancora lo spavento per quelle due torri colpite e affondate. Non quello sul circuito Lausitzring, addirittura ribattezzato “Memorial american” per segnalare una ulteriore vicinanza con il popolo yankee. A tredici giri dalla fine il destino di Alex Zanardi entra nelle vite di tutti noi che pensavamo quello fosse “soltanto” un pilota di auto. Scoprimmo, dopo un suo lungo e coraggioso viaggio attraverso sofferenze inenarrabili da parte di chi prima di essere trasportato in eliambulanza verso l’ospedale aveva già ricevuto l’estrema unzione, che quel ragazzone emiliano perennemente sorridente sarebbe diventato un punto di riferimento, una fonte inesauribile di coraggio e un portatore sano di quella meravigliosa utopia che è la voglia di vivere. 

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Soprattutto quando la vita stessa apparentemente ti gira le spalle beffarda e crudele. “Ricordo perfettamente che in ospedale mia madre mi ripeteva: hai visto che Zanardi dopo quello che gli è successo è già tornato in pista a gareggiare? Non arrenderti e pensa che puoi farlo anche tu!”. Lo racconta Giusy Versace quando ripensa a quel maledetto incidente nell’agosto del 2005. “Quello che ha fatto Alex, quello che sta ancora facendo è fonte di ispirazione per tutti. Tutti, non solo gli atleti paralimpici. Abbiamo tutti trovato grazie a lui il coraggio di reagire, la forza per non mollare mai e per rimetterci in gioco e dimostrare che nessuno è un peso ma tutti siamo una forza”.


La spedizione azzurra alle Paralimpiadi di Tokyo ha riportato a casa 69 medaglie. La settantesima è d’oro zecchino e la merita un meraviglioso convitato di pietra emiliano che oggi sta combattendo un’altra durissima battaglia. “Ho visto Alex per terra mettersi a sistemare la ruota di una handbike a un atleta”, racconta ancora Giusy Versace, che oggi è una deputata di Forza Italia e la prima firmataria di una proposta di legge contenuta nella Riforma dello Sport che riconosce pari opportunità nei gruppi sportivi militari e corpi dello Stato agli atleti paralimpici. “Quando l’ho visto per terra gli ho detto: dai, alzati che ci facciamo una foto insieme. Lui mi ha sorriso e mi ha detto: va bene, facciamo la foto. Ma abbassati tu che sto ancora aggiustando questa ruota”.


Alex Zanardi e le sue vittorie (quattro ori e due argenti olimpici per tacer di tutte le medaglie, quasi sempre del metallo più pregiato, nei mondiali di handbike) non sarebbero però sufficienti a spiegare (posto sia possibile trovare una spiegazione univoca) quel che questo atleta rappresenta a livello ispirazionaleKatia Aere ha vinto il bronzo nell’handbike. Ha iniziato con il nuoto, anche se aveva paura dell’acqua. Quell’acqua della quale aveva però spaventosamente bisogno quando nel 2003 un’improvvisa malattia autoimmune la costrinse a lunghe e complesse cure che prevedevano, anche, l’idrokinesiterapia. Prima medaglia: l’acqua non fa più paura. Katia diventa agonista e conquista 28 titoli italiani. Seconda medaglia: incontra Alex Zanardi alla presentazione di “Obiettivo3”, un sogno di Alex sotto forma di progetto con l’obiettivo di portare 3 atleti che lo seguono ai Giochi Paralimpici. La folgorazione sulla via di Damasco è completa. “Mi ha insegnato a non fermarmi”, racconta Katia dopo aver iniziato a familiarizzare con il paraciclismo. Fino al podio di Tokyo con la medaglia di bronzo. Giovanni Achenza è un cinquantenne sardo che nel triathlon paralimpico (nuoto, ciclismo e corsa) ha conquistato il bronzo. “Un grazie particolare lo voglio dedicare ad Alex Zanardi”, ha detto pochi minuti dopo la gara. “Nella frazione di ciclismo ho gareggiato con le sue ruote e questo mi ha dato una spinta fortissima verso la conquista del bronzo”. Dietro ad ognuno di questi atleti c’è una storia, un racconto che ad un certo punto vira verso qualcosa di potenzialmente distruttivo e che invece scrive un capitolo nuovo, per certi versi sorprendente, che li restituisce con una forza centuplicata. Ne hanno talmente tanta da essere in grado di offrirla sotto fonte di ispirazione a chi guarda loro come qualcosa di eroico. “Alle Olimpiadi si creano eroi. Alle Paralimpiadi arrivano gli eroi” ha filosofeggiato Ambra Sabatini dopo aver vinto l’oro nei cento metri più ineguagliabili della storia dello sport (tout court) italiano. Lei, Martina Caironi e Monica Contrafatto tutte sul medesimo podio a raccontare una storia che è racchiusa nell’immagine di loro tre avvolte nel tricolore. Unite da una comune ispirazione per Ambra e Monica: quel che faceva Martina. Già, ma Martina quella luce dove l’aveva trovata? Nell’innominabile. In quel Oscar Pistorius che la cronaca nera ha spazzato via. “Lo incontrai una sera del 2008 a Bergamo. Ho letto il suo libro, ho trovato nella sua straordinaria normalità la forza per ispirarmi a lui e condividere insieme le emozioni di Londra 2012. Poi c’è stato il 2013 e la condanna per omicidio. Non posso però dimenticare lo stimolo che Oscar è stato per me e sapere di poter raccogliere quel testimone ed essere io stessa d’esempio per altri atleti è qualcosa di molto profondo”, ha detto Martina che ora avrà anche il compito di rappresentare gli atleti nella Giunta del Comitato Italiano Paralimpico. Si diceva di Pistorius… “se ho iniziato a fare sport lo devo a lui e a Zanardi. Pistorius mi ha spronata ad andare avanti, a divertirmi e lasciarmi andare. Alex è stato come un padre, mi ha insegnato l’importanza della testa e della giusta mentalità”. Parole e musica raccontate da Bebe Vio. E se lo dice lei c’è da credergli.

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Le Paralimpiadi di Tokyo hanno raccontato un numero incalcolabile di storie. A tutti noi il compito di raccontarle nel miglior modo possibile. La storia di Zakia, prima donna afghana arrivata non si sa come in Giappone, quella di Asiya, prima kenyana a disputare sia Olimpiadi che Paralimpiadi. Oppure quella di Kylie, prima donna a vincere l’oro nel rugby in carrozzina. “La svolta è stata Londra 2012. Un’edizione che ha rappresentato la pietra angolare per lo sport paralimpico”, dice Giusy Versace. “Vi racconto un aneddoto. Ero a Vigevano e mi stavo allenando con il mio coach Andrea Giannini. A un certo punto in un momento di riposo mi accorgo che ci sono due ragazzini che non avevano più di 7 anni che mi guardano. E sento che uno dice all’altro: sai chi è quella? È un’atleta, è Giusy Versace. Capii quel giorno che qualcosa era cambiato. Che forse i tempi in cui avevo visto una madre coprire gli occhi della figlia mentre mi stavo svitando una protesi per sostituirla erano destinati a non ritornare più. Tutto questo anche grazie ad Alex Zanardi, al suo modo di raccontarci la vita e al coraggio che ha sempre avuto anche di essere, come molti di noi siamo, autoironico”.

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