La finale di Euro 2020 si gioca domenica sera a Londra, nello stadio di Wembley. Calcio d’inizio alle 21 ora italiana (foto LaPresse) 

Il Foglio sportivo

Italia-Inghilterra a Wembley. This must be the place

Giuseppe Pastore

Mancini e Vialli di nuovo nello stadio inglese per una finale. L'incontro che conclude Euro 2020 è anche una sfida tra fantasmi

Hanno ribassato il prato e abbattuto le vecchie torri. Hanno spostato il tunnel degli spogliatoi, cancellando l’inimitabile suggestione dello stadio che si spalancava ai giocatori, costretti a una camminata infinita già solo per mettersi in posa per l’inno nazionale. Hanno allungato la stairway to heaven che conduceva al Royal Box, stiracchiando i leggendari scalini da trentanove a centosette. Hanno globalizzato e banalizzato l’arredamento interno, rendendolo simile a uno stadio portoghese, russo o qatariota, anche se lo splendido arco, stella polare per le fiumane di tifosi che percorrono la lunghissima Wembley Way, mozza ugualmente il fiato. Eppure, come i vecchi manieri abbattuti una volta e per sempre, anche gli antichi stadi di calcio conservano i loro spettri. Roberto Mancini ha già vinto un trofeo nel nuovo Wembley, il 14 maggio 2011, ma una finale di Coppa d’Inghilterra contro lo Stoke City di Tony Pulis – paradigma dell’ostinato calcio britannico brutto, sporco e cattivo che presto o tardi verrà spazzato via dalla modernità – non può fare lo stesso effetto. L’unica possibile comparazione con la partita più importante della sua vita da allenatore è quella con la partita più importante della sua vita da calciatore.

La finale del 1992 è un incubo sotterraneo che torna di rado in tv o sui giornali, dacché la Sampdoria non ha il bacino d’utenza di Juve, Inter o Milan, sempre pronti a rinfacciarsi un’Istanbul o una Cardiff. Fu l’ultima finale della Coppa dei Campioni propriamente detta e già questo solleva il malinconico vento della fine di un’epoca; fu l’ultima partita della Sampdoria felix, prima che Vialli prendesse la via di Torino e Mancini rimanesse solo, a illudersi un altro po’ di prendere a colpi di tacco la dittatura juventino-milanista degli anni Novanta.

Il prato di Wembley non è più esattamente lo stesso, eppure quelli sono gli stessi metri quadri del rimpianto e dell’amarezza. Sul vertice sinistro dell’area di rigore a sinistra dei teleschermi, azionato da un incauto colpo di testa di un ventunenne Pep Guardiola, Mancini scodellò il tocchetto che mise Vialli solo davanti a Zubizarreta. Dietro la porta dove Kane ha segnato il 2-1 alla Danimarca, la pubblicità luminosa di TikTok o di qualche multinazionale asiatica ha preso il posto del cartellone dell’azienda vinicola Cellier des Dauphins, preso a calci da Vialli per la rabbia di aver fallito il gol che non doveva fallire. Dall’altra parte, a 25 metri in posizione centrale dalla porta in cui Federico Chiesa ha trafitto austriaci e spagnoli, c’è il pezzo di terra in cui Giovanni Invernizzi ed Eusebio Sacristán s’incagliarono l’uno sull’altro, inducendo il mediocre arbitro tedesco Schmidhuber, commerciante di disinfettanti, a fischiare una punizione di seconda per il Barcellona. Separati da Boskov che aveva sostituito il primo con Renato Buso, collocati in due punti diversi di Wembley, Vialli e Mancini capirono tutto all’istante e provarono lo stesso dolore, da veri gemelli: Gianluca si abbandonò alla disperazione affondando la faccia in un asciugamano azzurro, Roberto reagì con stizza, affrontò l’arbitro a muso duro, allontanò il pallone, cercò invano di sporcare la scena del delitto che stava per compiersi, come hanno fatto con maggior fortuna i suoi giocatori negli ultimi minuti di Italia-Belgio. E a difesa della porta in cui Donnarumma ha fermato prima Dani Olmo in partita e poi Morata ai rigori, Pagliuca non poté nulla sul missile di Rambo Koeman che fissò il tabellone sull’1-0 Barcellona, per sempre.

Quasi trent’anni sono passati dal 1992 fatidico per molta Italia e moltissima Europa: è l’anno della firma sul Trattato di Maastricht, tre mesi prima che il calcio riunisse sullo stesso prato la tradizione italiana portata avanti dal vecchio lupo balcanico Vujadin Boskov e il vento nuovo della Catalogna ispirato alle idee visionarie del genio olandese Johan Cruijff. Nel vecchio Wembley Vialli ha poi alzato ben tre trofei: andò a ricevere il primo – la Coppa di Lega 1998 vinta contro il Middlesbrough – vestito da sposo, in un brillante completo grigio e due fiori all’occhiello, uno giallo e uno azzurro. Mancini a Wembley ci è tornato più volte, non solo da allenatore ma anche da spettatore interessato: nell’ottobre 2016 la Federazione lo invitò ad assistere a Inghilterra-Malta, nei giorni in cui era apertissimo il casting per sostituire Sam Allardyce, il ct esonerato dopo essere caduto nella trappola del Daily Telegraph, e si pensava che il mite Gareth Southgate non fosse più che un semplice traghettatore. Anche il vecchio complice Attilio Lombardo, il miglior sampdoriano in campo di quella finale, ha allenato in Premier League per un mese e mezzo e proprio a Londra, al Crystal Palace. 

Il rumore di catene di Wembley 1992 risuona come un familiare compagno di viaggio e ormai fa più compagnia che paura: tirato in ballo impropriamente per Italia-Austria, quando ancora non sapevamo se il nostro Europeo avrebbe avuto un domani, ha molta più ragion d’essere per questo grande ballo di calcio e potere, cuore e cervello, scaramanzie incrociate, it’s coming home o it’s coming Rome. Alle 20 ora di Londra di domenica sera 11 luglio 2021 la situazione sarà probabilmente questa: gli inglesi, apparsi in condizione fisica smagliante anche nei supplementari della semifinale, avranno le gambe a favore ma anche la testa pesante come il piombo, impreparata ai fantasmi delle grandi occasioni che saltano fuori con look impeccabile e britannica puntualità. Tante volte in queste settimane abbiamo immaginato un protagonista diverso per ogni partita dell’Italia, a volte prendendoci: Spinazzola, Insigne, Chiellini&Bonucci, Jorginho... Giunti a questo punto della storia, chi crede nell’armonia circolare del calcio e della vita non può che convergere sulla stessa abbinata: Mancini e Vialli. La carriera dell’uno si stava trascinando pigramente, tra un’insignificante esperienza al Galatasaray, un ritorno senza molto senso all’Inter e una stagione allo Zenit San Pietroburgo che è dove vanno a finire gli allenatori al crepuscolo. Le sofferenze dell’altro sono state abbondantemente raccontate dal diretto interessato, con una dignità e lucidità non comuni per le nostre latitudini. Mancini e Vialli. This must be the place.

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