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Il Foglio sportivo

Un derby d’altri tempi per giocatori d’altri tempi

Giuseppe Pastore

Dopo anni un Milan-Inter  alle 15 e da scudetto. Il futuro (non solo nerazzurro) passa dai piedi di Nicolò Barella 

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Dopo quindici anni di vorticosi cambi d’abito da sera, coreografie esaltate dalle luci artificiali e di recente anche giochi di led importati direttamente da Las Vegas, le esigenze televisive hanno riconsegnato il derby di Milano alla domenica pomeriggio: non succedeva da oltre dodici anni, dal maggio 2008. La città pencola tra il giallo e l’arancione, ha voglia di rimettere il naso fuori di casa ma ne ha anche il timore, come chi è stato malato a lungo e si chiede come sarà all’esterno, se si ricorderanno ancora di noi. Per ora si aggrappa al calcio per ribadire una grandezza tutta da ridiscutere, quando verrà il momento. Ci sono stati derby in cui Milano-centro-del-mondo non aveva paura di niente: dove accidenti pensate di andare, lontano da qui? Oggi invece il Milan ha una fifa blu di perdere a zero il suo bambino prodigio Donnarumma che che domani diventa il giocatore più giovane a raggiungere 200 partite in serie A, con oltre un anno d’anticipo su Rivera e Silvio Piola, ma che nei tifosi suscita un singolare paradosso: adorato per le prodezze abbaglianti e la personalità in crescendo ma non del tutto amato per le contiguità pericolose e mai abbastanza rinnegate con l’orco Raiola. L’Inter ha paura di risvegliarsi la solita Inter, usata da un altro ex juventino che non l’ha neanche svegliata prima di andare via. Non ha supereroi a parte forse Lukaku, le cui fragilità sono comunque evidenti, e nemmeno li cerca: si sta poco a poco compattando in una comunità ideale per far prosperare Antonio Conte, un esercito stringato ma fedele di gente normale capace di imprese eccezionali, forgiato dalle eliminazioni in Champions e in Coppa Italia, che qualcuno sospetta siano inciampi programmati per avere la visuale sgombra di ostacoli fino al 23 maggio. Il re dell’accampamento non è Handanovic, il capitano più silenzioso della storia del balùn; non le due facce della lunatica LuLa, troppo ondivaghe e talentuose per diventare esempio: ma un ragazzo di un metro e settantadue nemmeno provvisto di tecnica particolarmente sopraffina, dunque praticamente un parìa oggi che dai calciatori si esigono qualità sovrumane come se fossero il batterista di Whiplash. Eppure Nicolò Barella esiste: esiste, ed è il miglior centrocampista del campionato.

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Dopo quindici anni di vorticosi cambi d’abito da sera, coreografie esaltate dalle luci artificiali e di recente anche giochi di led importati direttamente da Las Vegas, le esigenze televisive hanno riconsegnato il derby di Milano alla domenica pomeriggio: non succedeva da oltre dodici anni, dal maggio 2008. La città pencola tra il giallo e l’arancione, ha voglia di rimettere il naso fuori di casa ma ne ha anche il timore, come chi è stato malato a lungo e si chiede come sarà all’esterno, se si ricorderanno ancora di noi. Per ora si aggrappa al calcio per ribadire una grandezza tutta da ridiscutere, quando verrà il momento. Ci sono stati derby in cui Milano-centro-del-mondo non aveva paura di niente: dove accidenti pensate di andare, lontano da qui? Oggi invece il Milan ha una fifa blu di perdere a zero il suo bambino prodigio Donnarumma che che domani diventa il giocatore più giovane a raggiungere 200 partite in serie A, con oltre un anno d’anticipo su Rivera e Silvio Piola, ma che nei tifosi suscita un singolare paradosso: adorato per le prodezze abbaglianti e la personalità in crescendo ma non del tutto amato per le contiguità pericolose e mai abbastanza rinnegate con l’orco Raiola. L’Inter ha paura di risvegliarsi la solita Inter, usata da un altro ex juventino che non l’ha neanche svegliata prima di andare via. Non ha supereroi a parte forse Lukaku, le cui fragilità sono comunque evidenti, e nemmeno li cerca: si sta poco a poco compattando in una comunità ideale per far prosperare Antonio Conte, un esercito stringato ma fedele di gente normale capace di imprese eccezionali, forgiato dalle eliminazioni in Champions e in Coppa Italia, che qualcuno sospetta siano inciampi programmati per avere la visuale sgombra di ostacoli fino al 23 maggio. Il re dell’accampamento non è Handanovic, il capitano più silenzioso della storia del balùn; non le due facce della lunatica LuLa, troppo ondivaghe e talentuose per diventare esempio: ma un ragazzo di un metro e settantadue nemmeno provvisto di tecnica particolarmente sopraffina, dunque praticamente un parìa oggi che dai calciatori si esigono qualità sovrumane come se fossero il batterista di Whiplash. Eppure Nicolò Barella esiste: esiste, ed è il miglior centrocampista del campionato.

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Un numero 8 in purezza

Vorremmo dire “il miglior centrocampista italiano”, ma il delizioso Verratti visto al Camp Nou merita almeno il beneficio del dubbio. Però la definizione va ugualmente bene in quanto Barella è il Centrocampista Italiano in purezza, un numero 8 che sgroppa sui binari della dinastia Tardelli-Conte-Marchisio, e non abbiamo indicato a caso tre juventini. La prima variazione nella sequenza genomica di Barella sta in questo: che non gioca nella Juventus come sarebbe stato naturale dal 1970 fino all’altro ieri, ma è stato preso dalla provincia e allevato dall’Inter (lo stesso discorso vale per l’ex atalantino Bastoni, prelevato da un settore giovanile che ha fornito alla patria decine di juventini). Lo scorso 17 gennaio, in occasione del secondo gol alla Juve, i due hanno confezionato un’azione di brutale linearità che, nella speranza di tutti gli interisti, è lo squillo di tromba che annuncia il cambio della guardia a fine stagione.

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Dunque Barella non è juventino, ma interista. Ma non un interista svitato alla Brozovic o un interista asintomatico come Icardi: è un interista serio, puro, come quegli interisti un po’ caricaturali in cui credono solo gli interisti stessi. Condivide le iniziali con l’interista più antimilanista che ci sia, che con certe frasi e certe performance da derby ci è campato una carriera e anche un post-carriera. Ma Nicolò Barella non è Nicola Berti perché non tracima: riduce all’essenziale tutto ciò che non avviene su un campo di calcio. Ha una foga naturale che trascina anche nella vita privata: che fretta avevi di avere tre figlie già a 24 anni appena compiuti, benedetto ragazzo? Come i mariti che aspettano la buona notizia fumando fuori dalla sala parto, è animato da un nervosismo buono, positivo, ora che ha anche imparato a non seminare le sue stagioni di cartellini gialli. Quindici, dodici, undici negli ultimi tre campionati; solo quattro quest’anno. La prova del fuoco contro la Lazio, quando tutta Milano temeva o sperava nell’ammonizione che gli avrebbe fatto saltare il derby: e lui niente, impeccabile, nessun fallo commesso, senza rimetterci un solo decimale nel voto in pagella – né l’allenatore si è mai sognato di levarlo nemmeno sul 3-1, dacché nelle ultime sei partite gli ha risparmiato solo l’inutile garbage time avanti 4-0 sul Benevento. Conte l’ha marchiato a fuoco l’anno scorso dopo una brutta sconfitta a Dortmund, con una frase che lo metteva in croce insieme a un compagno, come i due ladroni: “A parte Godin qui nessuno ha mai vinto niente. A chi dobbiamo chiedere qualcosa in più? A Barella che arriva dal Cagliari? A Sensi acquistato dal Sassuolo?”. Da quella sera le loro carriere interiste hanno preso direzioni opposte.
  

Il suo corrispettivo? Calabria 

Il derby a orari d’altri tempi vedrà protagonisti giocatori d’altri tempi? Un corrispettivo milanista di Barella potrebbe essere Davide Calabria, ancora troppo poco reclamizzato rispetto al suo poderoso e rumoroso collega Theo Hernandez (si sa, a Milano comanda l’immagine). Tutti e due hanno avuto la fortuna e il talento di trovare l’allenatore giusto al momento giusto per fare il salto da cacicco di provincia a giocatore di rilevanza nazionale, come non sta succedendo in altri lidi (chi ha detto Kulusevski?). Tutti e due non sembrano avere difetti che non siano migliorabili dal tempo, dalla pratica e dall’applicazione. In particolare Barella è molto vicino al rischio di diventare giornalisticamente noioso, nella vaga ricerca di un difetto che macchi la sua crescita verticale che non ammette pause né in nerazzurro né in azzurro, con il ct Mancini cui questo gioiellino del centrocampo europeo è scoppiato in mano mentre vegliava la convalescenza di un altro Nicolò, molto più bizzoso e irregolare. Invece Barella non riempie le colonnine di destra dei siti d’informazione. È noioso perché induce alla retorica neo-draghiana dell’Italia-grande-paese, se fossimo negli anni Ottanta finirebbe in una canzone di Toto Cutugno: ma se fosse proprio questo il punto? Se dopo tutte queste sbornie da cui ci siamo risvegliati rintronati come tamburi, se dopo aver fatto dell’hangover uno stato mentale, avessimo finalmente bisogno di una noiosa costanza, di una noiosa affidabilità? Se avessimo bisogno di Nicolò Barella?

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