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Il Foglio sportivo

Il gol di Hateley nel derby e Rossi in busta. La versione di Giussy Farina

Corrado Beldì

Gli anni del Vicenza, del Milan e una vita senza mai guardare indietro. “Ai salotti ho sempre preferito le stalle” e le risaie piene d’acqua, le anatre, i fucili e questa piana infinita

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Uno dei derby più attesi di sempre. C’era un bel sole e San Siro era pieno come non mai, cinquantamila tifosi e record d’incassi, ero un ragazzino e quella domenica me la ricordo bene. Fu il giorno in cui Mark Hateley fece il miracolo. Si alzò ben oltre i tre metri, qualcuno scrisse che aveva sfiorato il secondo anello. Lo chiamavano Attila e una ragione c’era, si era fermato in aria a guardare la traiettoria, Zenga aveva fatto un gran tuffo ma quel colpo di testa era davvero imprendibile. “Il più grande salto che io abbia mai visto”. Milan-Inter 2-1 e lui, il presidentissimo del Milan esultante in tribuna coi baffi folti e scuri e uno di quei suoi memorabili cappotti.

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Uno dei derby più attesi di sempre. C’era un bel sole e San Siro era pieno come non mai, cinquantamila tifosi e record d’incassi, ero un ragazzino e quella domenica me la ricordo bene. Fu il giorno in cui Mark Hateley fece il miracolo. Si alzò ben oltre i tre metri, qualcuno scrisse che aveva sfiorato il secondo anello. Lo chiamavano Attila e una ragione c’era, si era fermato in aria a guardare la traiettoria, Zenga aveva fatto un gran tuffo ma quel colpo di testa era davvero imprendibile. “Il più grande salto che io abbia mai visto”. Milan-Inter 2-1 e lui, il presidentissimo del Milan esultante in tribuna coi baffi folti e scuri e uno di quei suoi memorabili cappotti.

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“Doveva essere di mio padre, in famiglia non si buttava via niente”. Proprio niente. Anche una rete a cui aggrappare i ricordi di una vita vissuta sempre in accelerazione, quella di Giussy Farina l’imprenditore agricolo veneto che voleva conquistare il mondo e a un certo punto pensò che fosse possibile. “Intanto le mostro i miei diamanti. Lei ha portato lo champagne?”. I diamanti di Giussy sono un mucchio di sassolini colorati, “guardi questo quant’è rosa, quest’altro è bianco e nero. Questo invece è tondo come un pallone”. Passa i pomeriggi a raccoglierli nelle campagne dove è cresciuto, attorno a una grande corte vicino a Palù dove finiscono le risaie e iniziano i campi delle mele di Verona, quelle dolci e croccanti che basta grattugiarle per tornar bambini.

  

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“Sono le mie terre, io sono sempre stato un contadino”, fin da quando a diciott’anni lavorava nell’azienda di famiglia e prese la laurea in legge solo perché il padre insisteva. “Farine di mais e di frumento, frutta di ogni tipo, naturalmente la vigna. Chardonnay e sauvignon, ma il vino mi piace tutto” e tanta acqua per il riso, “è la coltura migliore al mondo” e il posto ideale per far scendere le anatre, “bastano pochi richiami e vengon giù che è un piacere, tutte in  gruppo. Con una fucilata ne prendi anche tre”.

 

La versione di Giussy è quella di un uomo che non si è fatto mancar niente, “quando trovavo una bella cosa la compravo, d’altra parte a quei tempi ne avevo le possibilità”. Aziende, calciatori, donne, quattro mogli “ma non le ho mica sposate tutte” o forse si. “Alla mia età non so più se sono bugiardo o se mi son dimenticato”. Gli acquisti migliori invece li ricorda bene, quelli per il Lanerossi come Angelo Sormani, “un talento inimitabile” e Luís Vinício, 68 reti col Vicenza e soprattutto “un formidabile allenatore” e poi Cinesinho, piccolo, scattante, con quel tiro a effetto, micidiale, “un piede storico, segnava su calcio d’angolo”. Tribune, spogliatoi, telecronisti, viaggi irripetibili, la squadra come una famiglia, spesso più importante della sua. I giocatori come figli, “li trattavo coi guanti di velluto” e quelli ci mettevano l’anima. Come Ezio Vendrame, il George Best italiano, “un pazzo scatenato, faceva sempre il contrario di quel che dicevo ma era un uomo di cuore”, forse perché veniva da Casarsa della Delizia e come Pierpolo Pasolini era di quelli che cambiano sempre schema. “Ho sempre evitato la noia”, Farina lo ripete come un mantra e “il bello del calcio è che non sai mai come va a finire”, certo serve sempre il colpo di fortuna e “avevo anch’io il mio amuleto”, come i calzini di Costantino Rozzi o il sale di Romeo Anconetani, “era un rametto di timo, lo tenevo nel taschino della giacca, ogni tanto lo sfregavo e veniva fuori quel profumo e spesso anche un goal che cambiava la partita”.

  

La vera svolta però fu l’incontro con Paolo Rossi, la sua grande scoperta, il bomber del Real Vicenza, due stagioni memorabili nate da un’intuizione. Campagna acquisti del 1976. Hotel Gallia di Milano, “giravo come un pazzo per provare a rafforzare la formazione, sapevo che quell’anno si poteva fare il colpo”. Gli parlano di un certo Paolino e lui se lo ricorda in una partita a Como, “avevo capito che la stoffa c’era e poi mi dissero che era un bravo ragazzo”. Farina studia la combinazione, Verza, Marangon e Paolo Rossi, gli incontri, le telefonate e poi finalmente la firma e la corsa verso il bar per dirlo a G.B. Fabbri. “Mister, li ho presi tutti e tre!” e quello “ora che mi ha preso le riserve, vedi di farmi la prima squadra”. Invece un Vicenza così non si è mai più visto, per Gianni Brera “la miglior provinciale di sempre”, la promozione e l’anno dopo lo scudetto sfiorato, Rossi capocannoniere e il Mondiale in Argentina, “quello in cui divenne Pablito” e l’avvocato Agnelli che lo vuole subito alla Juve, senza mezzi termini. “Avevo chiesto di tenerlo ancora un anno e quelli ce l’hanno fatta pagare”.

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Quella busta da 2 miliardi e 612 milioni è la nemesi di Farina, la cifra più alta mai spesa per un calciatore e forse l’inizio dei suoi guai. D’altra parte, era impossibile tirarsi indietro. “Se il calcio è un’arte, Paolo Rossi era la sua Gioconda e noi lo volevamo a Vicenza”, anche contro la Juventus. A chi gli chiese chi avesse vinto, Farina disse “loro sono più ricchi perché han tenuto i soldi in cassaforte, noi più ricchi perché abbiamo Paolo Rossi”. Quando chiesero a Boniperti cosa gli piacesse di Farina, rispose “le sue battute”. “E cosa non le piace?” “Le sue battute”. Senza dubbio ne valeva la pena, “un ragazzo d’oro, non puoi immaginare quanto”, i pomeriggi a giocare a ping-pong coi figli di Giussy, i pranzi, i consigli e il tempo passato insieme “nei due anni durissimi di squalifica per il calcioscommesse” e il clamoroso riscatto del campione che dopo la tripletta con il Brasile divenne il simbolo dell’Italia nel mondo. “Pizza, mandolino, paolorossi”, l’espressione che non potrebbe esistere senza il suo presidente, perché “in una vita nel calcio non mi sono innamorato di nessuno tranne che di Paolo”.

 

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Vent’anni col Vicenza in serie A, ma era tutto più facile di adesso. “Mica si doveva vincere per forza”. Un modello di calcio locale, “avevamo le squadre satelliti, Valdagno, Legnago, Schio, Rovigo, Belluno, i giovani li mandavano a farsi le gambe e i migliori del Veneto poi finivano da noi”. Soprattutto c’era quel marchio, la grande R rossa, legame di sangue con l’industria laniera, la squadra era l’anima della fabbrica e gli operai erano i primi tifosi e tutti a dare consigli, dal Sindaco al ragioniere e “ognuno a dir la sua e io li ascoltavo tutti e poi parlavo con G.B. Fabbri e lui dava sempre l’impressione di ascoltarmi. Insomma, un impiegato modello”, di quelli a cui lasciare le chiavi quando c’era qualcosa di più urgente, come partire per una battuta di caccia in Sudafrica. Una piccola casa sull’oceano e “intorno non c’era nulla, pochi cespugli e tanti animali” e te lo immagini esattamente com’era, seduto sulla soglia a sparare ai serpenti e poi le fughe in Spagna nella “magnifica azienda agricola, partivo in Jaguar, dodici ore filate e mi fermavo solo per far benzina” e una riserva in Toscana e le terre qui attorno e il roccolo per gli uccellini. “Ne ho fatti fuori a migliaia. Polenta e osei ai potenti del calcio italiano. Poveretti”. I potenti, ovviamente.

 

Chissà chi gliel’ha fatto fare un giorno di comprarsi il Milan, “arrivi a San Siro e capisci che il calcio non è più una passeggiata”, a certi livelli non si scherza, hai “centomila occhi addosso”, devi far quadrare i conti e vincere ogni domenica “altrimenti i tifosi ti linciano”. Basta riascoltare il discorso di Donato, il ras della Fossa dei Leoni in Eccezziunale Veramente, “sarò breve e circonciso”, per capire cosa vuol dire rilanciare un Milan che non vinceva il derby da sei anni. Il ritorno in serie A, il marchio Olio Cuore sulle maglie. “Mangiar bene per sentirsi in forma”, per saltare la staccionata, come Nino Castelnuovo nel famoso spot, Farina vola a Londra per fare il grande colpo, Luther Blissett, la freccia nera, il cannoniere del Watford di Elton John. Una trattativa indimenticabile. “Uno vestito così non l’avevo mai visto”, gli strani gridolini, le reazioni stravaganti e Farina non sa che pesci prendere e poi l’ultimo rilancio “senta signor Elton, perché non si toglie quegli occhiali da sole?”. Poteva essere la svolta, fin dalle dichiarazioni di Blissett al suo arrivo a Linate “se Platini ne ha fatti 18 io ne farò tranquillamente il doppio”. Invece è un fantasma, si ferma a cinque reti e viene rispedito a casa. Resta solo lo pseudonimo letterario. L’anno dopo arriva Mark Hateley e con Nils Liedholm la squadra inizia a girare. Farina porta a Milano il figliol prodigo Paolo Rossi e forma con Virdis uno dei tridenti più forti di sempre. Gli ingredienti ci sono tutti e infatti arrivano le vittorie compreso quel derby memorabile, finché emergono i problemi, il ritardo in tre rate dell’Irpef, oggi sarebbe un dettaglio, “i soldi c’erano ma qualcuno voleva quel Milan”. Arriva il Cav. a portare quel gruppo alle grandi vittorie, “ma i migliori c’erano già, Maldini, Tassotti, Galli, Baresi, Evani, Virdis, tolti gli olandesi sono quelli con cui Arrigo Sacchi ha vinto tutto”.

 

Partite che Farina ha visto in televisione “e quasi mai allo stadio” pur continuando a viaggiare in lungo e in largo per il globo alla ricerca di nuove avventure, di selvaggina da cacciare, di campi da seminare, tutto il tempo nelle sue campagne perché, in fin dei conti, “ai salotti ho sempre preferito le stalle” e le risaie piene d’acqua, le anatre, i fucili e questa piana infinita, come quella di Tex Willer “che ancora oggi è il mio compagno di avventure preferito”, insieme ai sassi e ai suoi ricordi, come quando gli torna in mente quel favoloso salto di Mark Hateley, una gemma nella storia del derby. “Guardi, le do uno dei miei diamanti. Guardi che bello. La prossima volta però mi porti una bottiglia di champagne” per brindare ancora una volta a una vittoria afferrata per un soffio o più semplicemente a una vita vissuta senza mai guardare indietro. 

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