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Tempesta emotiva

L’iper veterano Brady, il Boss nel centro e il Superbowl degli Stati Riuniti d’America

Stefano Pistolini

È stata una sfida generazionale, mentale, fra le due parti di un'America spaccata in due. E che ora può ritrovarsi anche attraverso lo sport

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Che tempesta emotiva, il Superbowl andato in scena domenica! Neanche per un momento il valore sportivo dell’evento, la sfida tra i campioni uscenti, i Kansas City Chiefs, e una formazione estranea all’aristocrazia del football americano, i Tampa Bay Buccaneers, è riuscito a sovrastare l’imponente fattore psichico che ha riunito cento milioni di americani davanti ai teleschermi, per l’evento più visto dell’anno, una specie di pranzo del Ringraziamento catodico. Tutte le passioni fluivano ben oltre i lanci e i passaggi della palla ovale, nella partita che i floridiani da subito hanno incanalato dalla parte giusta, sovvertendo un pronostico che li vedeva come “finalisti per caso”. L’intero evento si è proiettato invece su una scala diversa, spirituale, perché questo è stato il Superbowl dell’America ammalata e neppure convalescente, il Superbowl in cui il grande paese si è scoperto fragile, il Superbowl arrivato nell’epilogo della follia elettorale, dei deliranti opposti estremismi, del paese spaccato in due come una zucca, su cui aleggia il fantasma del desaparecido Trump e di cui Joe Biden sta provando a farsi carico, con le cautele del caso. Il paese del bianco e del nero, della tensione, degli scheletri nell’armadio, dei conti da saldare, dei torti da risarcire, del non-detto e di ciò che è meglio tacere.

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Che tempesta emotiva, il Superbowl andato in scena domenica! Neanche per un momento il valore sportivo dell’evento, la sfida tra i campioni uscenti, i Kansas City Chiefs, e una formazione estranea all’aristocrazia del football americano, i Tampa Bay Buccaneers, è riuscito a sovrastare l’imponente fattore psichico che ha riunito cento milioni di americani davanti ai teleschermi, per l’evento più visto dell’anno, una specie di pranzo del Ringraziamento catodico. Tutte le passioni fluivano ben oltre i lanci e i passaggi della palla ovale, nella partita che i floridiani da subito hanno incanalato dalla parte giusta, sovvertendo un pronostico che li vedeva come “finalisti per caso”. L’intero evento si è proiettato invece su una scala diversa, spirituale, perché questo è stato il Superbowl dell’America ammalata e neppure convalescente, il Superbowl in cui il grande paese si è scoperto fragile, il Superbowl arrivato nell’epilogo della follia elettorale, dei deliranti opposti estremismi, del paese spaccato in due come una zucca, su cui aleggia il fantasma del desaparecido Trump e di cui Joe Biden sta provando a farsi carico, con le cautele del caso. Il paese del bianco e del nero, della tensione, degli scheletri nell’armadio, dei conti da saldare, dei torti da risarcire, del non-detto e di ciò che è meglio tacere.

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Sul rettangolo verde un fronteggiamento che più simbolico non poteva essere, silenziosamente pericoloso, dal momento che nessuno poteva dire o scrivere ciò che veramente pensava: Tom Brady, il quarterback dei Bucanieri, iper veterano 43enne, eterna incarnazione del bravo ragazzo bianco, del figlio prediletto della nazione, del marine sbarcato a Omaha Beach, dell’uomo sulla luna, del Marlboro Man al tramonto. Tom il vincente, inscalfibile perfino dagli scandali che l’hanno sfiorato, icona dell’America solida e perenne. Contro di lui l’astro nascente, Patrick Mahomes, 25 anni, quasi suo figlio, non fosse che è un sangue misto, un ragazzo nero pagato mezzo miliardo di dollari per giocare in un ruolo che un tempo si diceva intellettualmente inadatto agli atleti di colore. Come si fa a non ripensare al giorno del raid dentro al Campidoglio, spruzzando il tutto di poliziotti pistoleri, di afroamericani ammazzati senza motivo, mettendoci gli ammiccamenti di Mahomes al movimento Black Lives Matter?

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Ecco la scenografia mentale di questa notte. Ha vinto Brady, determinato e preciso contro un avversario in precarie condizioni fisiche. Una notizia che placa una parte d’America e fa alzare le spalle all’altra. Perché magari  essersi trovati – tutti, senza esclusioni di razza, età e ceto – a leggere così lo scontro servirà a capire meglio che il prossimo passo dev’essere in avanti e che il paese deve uscire dal vicolo cieco nel quale si è ficcato. Una morale andata in onda addirittura nel corso della partita, quando nel quarto tempo è partito lo spot pagato dalla Jeep per utilizzare Bruce Springsteen come testimonial, non solo dei propri Suv, ma di un modo particolare di vivere all’americana, di cui lui d’altronde è l’interprete naturale – l’individuo che fa della propria autonomia il frammento di una collettività coesa.

   

   

Il minifilm, trionfante nel suo product placement, è pura suggestione: panorami degli spazi sterminati, ralenti e il Boss a Lebanon, Kansas, centro geografico della nazione, davanti a una cappella. La sua voce amministra il solenne messaggio: “Tutti sono i benvenuti a incontrarsi qui nel centro, anche se non è un segreto che ultimamente il centro è un luogo difficile da raggiungere, tra il rosso e il blu, tra chi comanda e i cittadini, tra la nostra libertà e le nostre paure. Ma noi abbiamo bisogno del centro. Dobbiamo ricordarci che il suolo su cui camminiamo è un terreno comune e perciò dobbiamo arrivarci. La nostra luce si è sempre fatta strada tra le tenebre”. Chiusura, con l’ugola arrotata che graffia gli animi: “Agli Stati Riuniti d’America”.

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Poi la partita è finita. S’è fatta ora d’andare a letto. Vincitori, perdenti, confusi, rabbiosi, pacificati. Pensandoci, magari: il paese deve capire dov’è che i due colori possono combinarsi. E ricominciare a illuminarsi.

 

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