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Il Foglio sportivo

Di cosa parliamo quando parliamo di pallone

Roberto Perrone

Burocratici e sorvegliati, i rapporti tra calciatori e media sono cambiati. Era inevitabile, non facciamo i nostalgici 

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Nel ricordo di Pablito. Nell’autunno del 1986 il Giornale mi chiese un’intervista a Paolo Rossi che era passato dal Milan al Verona, per il suo ultimo urrà nel football. A giugno avrebbe chiuso. Lo aspettai nel parcheggio del Bentegodi, gli chiesi se potevamo parlare e lui mi rispose “sì, certo” e ci fermammo lì, nell’aria ancora tiepida, appoggiati a un’auto. C’era un’epoca i cui i giornalisti lavoravano così, andavano, senza appuntamento, né richiesta in carta da bollo presentata all’ufficio (stampa) preposto. C’era un tempo in cui pranzavano con le squadre di calcio in ritiro alla vigilia delle partite. Io, alle 13 del primo gennaio 1983, a Milanello, mi sedetti a tavola con Baresi, Tassotti, Serena, Evani (Alberico, detto “Bubu”), l’attuale vice di Mancini. Ah, su Mancini ne ho una stupenda. Ma ci arriviamo, perché prima una premessa è d’obbligo. Qui parliamo dei rapporti tra giornalisti e calciatori/club, di come erano e di come non sono più. Ne ha scritto, lungamente, Mario Sconcerti sulla Lettura del Corsera, sfidando il famoso “assioma De Cesari”. Ezio De Cesari, leggendaria firma del Corriere dello Sport, a cui vengono attribuite alcune delle massime/regole più fulminanti riguardo la professione del giornalista (sportivo), sosteneva: “Non ti lamentare e non parlare mai sul tuo giornale o pubblicamente dei problemi dei giornalisti o del cattivo trattamento da parte dei club. Chi ti legge sarà solo contento. Diranno: fanno bene”. Vangelo. Il giornalista sportivo, anche in tempi meno pessimi di questi, è sempre stato trattato dal popolo con sentimenti che vanno dalla sufficienza al disprezzo perché (1) anche l’ultimo coglione da stadio e ora da tastiera è convinto di saperne sempre più di un professionista e (2) perché il giornalista è considerato un privilegiato. Come al nome dell’arbitro negli stadi (quando c’era popolo), partono i fischi preventivi. Quello che voglio dire, cominciando questo trattatello sul mutamento dei rapporti club/giocatori e “media” – parentesi: già in questa parola c’è il senso del cambiamento, negli anni Ottanta avrei detto “stampa” – è che non si tratta di un cahier de de doléances (1), né di un esercizio di nostalgia (2). La nostalgia esiste se avevi qualcosa e poi l’hai perso. Chi ha la mia età, ora fa il giornalista in modo diverso; chi ha trenta, quarant’anni, non conosce altra realtà che questa. Questo è un album di fotografie. 

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Nel ricordo di Pablito. Nell’autunno del 1986 il Giornale mi chiese un’intervista a Paolo Rossi che era passato dal Milan al Verona, per il suo ultimo urrà nel football. A giugno avrebbe chiuso. Lo aspettai nel parcheggio del Bentegodi, gli chiesi se potevamo parlare e lui mi rispose “sì, certo” e ci fermammo lì, nell’aria ancora tiepida, appoggiati a un’auto. C’era un’epoca i cui i giornalisti lavoravano così, andavano, senza appuntamento, né richiesta in carta da bollo presentata all’ufficio (stampa) preposto. C’era un tempo in cui pranzavano con le squadre di calcio in ritiro alla vigilia delle partite. Io, alle 13 del primo gennaio 1983, a Milanello, mi sedetti a tavola con Baresi, Tassotti, Serena, Evani (Alberico, detto “Bubu”), l’attuale vice di Mancini. Ah, su Mancini ne ho una stupenda. Ma ci arriviamo, perché prima una premessa è d’obbligo. Qui parliamo dei rapporti tra giornalisti e calciatori/club, di come erano e di come non sono più. Ne ha scritto, lungamente, Mario Sconcerti sulla Lettura del Corsera, sfidando il famoso “assioma De Cesari”. Ezio De Cesari, leggendaria firma del Corriere dello Sport, a cui vengono attribuite alcune delle massime/regole più fulminanti riguardo la professione del giornalista (sportivo), sosteneva: “Non ti lamentare e non parlare mai sul tuo giornale o pubblicamente dei problemi dei giornalisti o del cattivo trattamento da parte dei club. Chi ti legge sarà solo contento. Diranno: fanno bene”. Vangelo. Il giornalista sportivo, anche in tempi meno pessimi di questi, è sempre stato trattato dal popolo con sentimenti che vanno dalla sufficienza al disprezzo perché (1) anche l’ultimo coglione da stadio e ora da tastiera è convinto di saperne sempre più di un professionista e (2) perché il giornalista è considerato un privilegiato. Come al nome dell’arbitro negli stadi (quando c’era popolo), partono i fischi preventivi. Quello che voglio dire, cominciando questo trattatello sul mutamento dei rapporti club/giocatori e “media” – parentesi: già in questa parola c’è il senso del cambiamento, negli anni Ottanta avrei detto “stampa” – è che non si tratta di un cahier de de doléances (1), né di un esercizio di nostalgia (2). La nostalgia esiste se avevi qualcosa e poi l’hai perso. Chi ha la mia età, ora fa il giornalista in modo diverso; chi ha trenta, quarant’anni, non conosce altra realtà che questa. Questo è un album di fotografie. 

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Il primo gennaio del 1983 era un bel sabato invernale di sole a Carnago. Carnago è il comune dove sorge il Centro Tecnico del Milan, Milanello. Era vigilia di partita. Il Milan era in serie B, per la seconda volta, quella “gratis”, avrebbe chiosato il perfido avvocato interista Peppino Prisco. Sono andato a controllare perché non ricordavo l’avversario. Era la Reggiana. Giovane praticante ligio, mi presentai per parlare con Ilario Castagner, l’allenatore in carica. A quei tempi non c’era la messa cantata con il tavolo rialzato, il tabellone degli sponsor, l’addetto stampa che dirige il traffico come un vigile urbano. Non si era pregati di dire prima nome, cognome e testata, perché eravamo una compagnia di giro, ci si conosceva tutti. Quel giorno ero l’unico giornalista presente. Per Milan-Reggiana di serie B, in mezzo alle vacanze e con i postumi del cenone, gli altri se la cavarono con una telefonata. Avevano ragione loro, ma io ero maledettamente ligio. Comunque parlai con Castagner e dopo mi accomodai nella saletta da pranzo destinata alla Primavera, agli ospiti e ai giornalisti. Solo. Castagner si affacciò, mi vide ramingo e allargò le braccia. “Ma dai, vieni a tavola con noi”. E così pranzai con la prima squadra. 

 

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Fino all’inizio del Terzo Millennio, nei centri tecnici si andava e veniva, si poteva bivaccare per ore. Al bar di Milanello si prendeva il caffè con i giocatori, ad Appiano Gentile Trapattoni veniva a sedersi al nostro tavolo, dopo mangiato. Anche alla Pinetina era previsto il pranzo. A pagamento come a Milanello, eh, non esageriamo. E proprio al bar del centro tecnico rossonero eravamo con due calciatori, non ricordo chi, a bere qualcosa e passò Gigi Radice. “Occhio ragazzi, al bar si muore”. Il tecnico, citando la canzone di Gianni Morandi, avvertiva i suoi giocatori di stare attenti a quello che dicevano. Erano tempi grami per il Milan. Provocò una generale grattata. 

 

A Torino non c’era il ristorante perché la Juventus non aveva un centro tecnico, allora. Si allenava al Combi. La squadra si cambiava negli spogliatoi del Comunale e poi attraversava via Filadelfia. Noi stazionavamo sulla porta nel piccolo corridoio che portava all’uscita e arpionavamo il giocatore che ci interessava. Lì, in un pomeriggio agostano del 1982, Michel Platini confessò candidamente ai tre giornalisti presenti di avere la pubalgia, che lo condizionò per i primi mesi di quella prima stagione italiana. Adesso, la marcatura a uomo (fateci caso: ormai nessuno marca più a uomo, solo gli addetti stampa) del press officer di turno avrebbe (1) impedito  qualsiasi contatto; (2)  bloccato qualsiasi accenno a malattie o faccende troppo private troncando l’intervista. 

 

Una volta, come dicevo, ad Appiano i tifosi potevano entrare nel bar e nel parcheggio dei giocatori, mischiarsi con i giornalisti. Nell’era pre internet, i fotografi scattavano le foto, poi correvano a svilupparle e dopo andavano nelle redazioni a venderle. Un giorno ne arriva uno con una foto del sottoscritto con Hansi Müller, neo acquisto interista, e un tifoso alla Pinetina. Il mio capo di allora, il grandissimo Alfio Caruso, dice a voce alta, indicando il tifoso, un tipo belloccio: “Peccato che il cronista del Giornale non sia questo”. Era una delle cose più carine che mi abbia mai detto, ma dopo quarant’anni ci frequentiamo ancora, perché, tra un giro della morte e l’altro, mi ha insegnato un mestiere.

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A proposito di Appiano Gentile, ho due ricordi divertenti. Il primo riguarda Alessandro “Spillo” Altobelli. Se arrivavo in anticipo sull’ora dell’incontro con l’allenatore, stabilita tacitamente senza comunicati né accrediti, mi portavo i giornali da leggere. Spillo me ne prendeva sempre un paio e spariva. “Ma con tutti i soldi che ha, non potrebbe comprarseli? Perché glielo permetti?”, mi chiese un collega. “Perché mi diverte e mi conforta vedere un calciatore che legge i giornali” gli risposi. Un giorno, mentre ero lì con la mia mazzetta, Giorgio Reineri storico (e molto snob) inviato del Giorno mi domandò: “Scusa hai l’Herald Tribune?”. Eh sì, anche la qualità dei giornalisti era diversa.

 

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Nella seconda metà degli anni Ottanta, divenni amico di Roberto Mancini. Fu il primo giocatore con cui andai a pranzo. Ci eravamo simpatici. L’avevo conosciuto che era poco più di un ragazzo nell’allora sede della Lega in viale Filippetti a Milano dov’era venuto a difendersi dopo aver beccato una squalifica pesante per aver detto qualche parola di troppo all’arbitro. Ci vedevamo e sentivamo. Una volta, era la primavera del 1988, diretto in Riviera, feci una tappa a Bogliasco. La Sampdoria si stava allenando. Io arrivai vicino alla rete. I nostri sguardi si incrociarono. Il Mancio mollò l’allenamento e venne a salutarmi. Conversammo amabilmente. Gli chiesi che ne pensava del portiere titolare Bistazzoni che mi sollevava qualche dubbio. “Meglio un citofono”. Qualche giorno dopo esordiva Pagliuca. Allenatori si nasce. 

 

Nel settembre del 1993, nel pre-campionato, il mio caporedattore di allora voleva un’intervista a Roberto Baggio. Domandai all’addetto stampa della Juventus, trattandosi del (quasi) Pallone d’oro, di organizzarmi un incontro. “Ma non c’è problema, chiedigliela tu”. Sì, non era così facile, lui mi diceva “non ora”, “non ho tempo”, “non riesco”. Il mio capo minacciò sanzioni disciplinari. Così un giorno andai a Torino, al Comunale, e mi buttai sul cofano dell’auto di Baggio, per fermarlo. Quindi mi infilai nel suo finestrino e nel frattempo mollavo fendenti di kick boxing per tenere lontani i colleghi. Tirai via il minimo sindacale per scrivere ottanta righe. Tornai in redazione e annunciai: “La prossima volta proponi pure il mio licenziamento, ma se chiedo un’intervista e me la negano, non insisto, non mi umilio, non minaccio. Grazie e arrivederci”.

 

Quindi ero pronto con anni di anticipo al cambiamento, cioè all’èra dell’incomunicabilità. Ora i centri tecnici sono fortilizi inaccessibili difesi da plotoni di bodyguard e tecnologia. Ora (parliamo dell’èra pre-covid) si entra solo nei giorni e negli orari stabiliti. Ora se vuoi un’intervista fai prima ad aprire un bar perché la burocrazia statale è meno urticante.

 

Che cosa è successo, dunque? Semplice. Il calcio degli anni Ottanta e in parte Novanta aveva Platini e Maradona, Zico e Van Basten, ma nessuno a cui venderli, a parte gli spettatori paganti dello stadio. Non entrava nelle case a ogni ora, ogni giorno, con tv, radio, giornali, web, pc, tablet, smartphone. Non era uno spettacolo planetario con proliferazione degli strumenti informativi che lo raccontano. Le società avevano organigrammi stringati. Non esistevano quotazioni in borsa, fondi, asset, merchandising. Lo sponsor era uno, fine. Non c’erano i diritti di immagine, non c’erano i social. Non c’erano le tv con i diritti, il canale del club, la radio ufficiali e le tremila para amigos, i milioni di siti web. Allora, se un calciatore voleva far sapere qualcosa, come Walter Zenga che scalpitava dietro Ivano Bordon, doveva parlare con me. Adesso, se vuole fare comunicare al presidente, che si pavoneggia con il nuovo aereo, che prima dovrebbe pagare regolarmente gli stipendi, fa un post e in un lampo lampante lo sa il mondo. Se aprissero i centri tecnici, ci sarebbe la folla. Oggi ci sono pochi giornali, ma milioni di giornalisti. No, è cambiato tutto e indietro non si torna. Però, e Sconcerti ha ragione, si può migliorare, si potrebbero avere rapporti migliori. Se non proprio una via di mezzo, una via di un quarto. Con un po’ di buona volontà. Purtroppo, però, questa, non è sponsorizzabile. Però, potrebbe essere un’idea.

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