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Paolo Rossi era la leggerezza

Gino Cervi

Di lui non avresti potuto dire che fosse un grande atleta: si reggeva del resto su ginocchia malandate. E tecnicamente non eccelleva in niente di particolare. Eppure era un lasciapassare, una parola magica: Paolorossi

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Paolorrossi si scriveva - anzi si scrive e si scriverà - tutt’attaccato. Come Gigirriva. Il nome si salda al cognome con quella R raddoppiata, rinforzata, rinsaldata. Se quella R era in Gigirriva il rombo di un tuono, o di un potente motore, in Paolorrossi era il ronzio quasi impercettibile di un computer portatile, "i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma di impulsi elettronici". Gigirriva era il calcio nell’età dell’hardware, Paolorrossi era il football fatto software. In altre parole, Paolorrossi era la leggerezza.

   

Nel 1985 Paolorrossi si avviava a terminare la sua non lunga carriera di campione, durata non più di un decennio scandito però da capitoli davvero romanzeschi. Tre operazioni al menisco tra i sedici e i diciott’anni, quando giocava nelle giovanili della Juventus e quando rompersi il menisco spesso voleva dire fare una croce sopra la carriera; la bella favola del Lanerossi Vicenza, trascinato in due stagioni (1976-77 e 1977-78) dai suoi gol di capocannoniere dalla serie cadetta al secondo posto in serie A; la consacrazione internazionale - e il battesimo di “Pablito” – al centro dell’attacco dell’Italia di Bearzot ai Mondiali di Argentina; il clamoroso affare di mercato che, per l’esorbitante cifra di 2 miliardi e 612 milioni di lire – solo la metà del cartellino – , risolse “alle buste” a vantaggio del Lanerossi del presidente Giussy Farina la comproprietà con la Juventus di Giampiero Boniperti (se spregiudicato il primo o scaltrissimo il secondo, non si è mai capito); quindi un altro rovinoso infortunio al ginocchio in Coppa Uefa, massacrato da un'entrata di Ludĕk Macela, nomen omen e stopper del Dukla Praga; poi un altro epocale cambio di maglia, nell’estate del 1979, quando il Perugia, per finanziare il suo acquisto, in prestito biennale dal Lanerossi nel frattempo retrocesso in B, inaugurò per la prima volta nel calcio italiano la sponsorizzazione sulle maglie (Paolorrossi giocò quell’anno con il marchio del Pastificio Ponte sul petto); la sventura del Calcioscommesse che gli costò una squalifica di due anni, dalla primavera del 1980 a quella del 1982, per l’accusa di aver partecipato il 30 dicembre 1979 all’“accomodamento” di una partita, Perugia-Avellino, terminata 2-2, peraltro con una sua doppietta; il ritorno alla Juventus, un anno da “paria” ad allenarsi senza giocare; la convocazione del testardo e bersagliatissimo Bearzot ai Mondiali di Spagna, con alle spalle pochissime partite; l’avvio stentato di quel torneo, in cui Pablito – sempre Pablito, trattandosi ancora di Mundial – sembrava un ectoplasma in campo; fino all’apoteosi del 5 luglio 1982 allo stadio Sarrià di Barcellona, con la tripletta al Brasile e la strada spianata verso la Coppa del mondo.

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Mai vista, in verità, una cosa simile: 6 gol e tutti decisivi nelle ultime tre partite, anzi in 232 minuti, dal 5’ dell’1-0 di Italia-Brasile al 57’ dell’1-0 di Italia-Germania Ovest. L’Italia è campione del mondo, Paolorrossi è capocannoniere del torneo e, qualche mese più tardi, Pallone d’oro.  Dopo il Mundial spagnolo, seguirono ancora tre stagioni sugli scudi nella Juventus di Trapattoni e Platini: lo scudetto del 1983-84 (causa squalifica, a quello del 1981-82 aveva contribuito solo in minima parte: 3 partire e un gol), la Coppa Italia del 1983, la Coppa delle Coppe e la Supercoppa UEFA del 1984 e, soprattutto, la prima Coppa dei Campioni bianconera, per quanto insanguinata dalla tragica notte dell’Heysel, il 29 maggio 1985. Da questo momento inizia una rapida parabola discendente: due stagioni abbastanza anonime, la prima al Milan (i rossoneri lo ricordano per i suoi unici due gol in un derby) e la seconda, e ultima, al Verona. Nel maggio del 1986 gioca la sua ultima partita in Nazionale, a Napoli, contro la Cina, senza segnare, come ormai gli capitava da un po’.

  

Paolorrossi, dicevamo all’inizio, smette di essere Paolorrossi già nel 1985, dopo la notte dell’Heysel, in cui, forse, visto la Medusa e si è pietrificato. In quell’anno Italo Calvino, poco prima di morire, scrive un citatissimo saggio sulla leggerezza, che poi andrà a far parte della raccolta Lezioni americane, uscita postuma nel 1988. Calvino scrive della fatica che si fa a cercare la leggerezza nella scrittura, al tentativo di sfuggire "alla pesantezza, all’inerzia, all’opacità del mondo". Quindi passa in rassegna grandi esempi di figure letterarie in cui l’essere leggero è una qualità che reca in sé un valore che va ben al di là della sola estetica. Cita il mito di Perseo che "per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare […] si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio". Ricorda Ovidio che, nelle Metamorfosi, disegna in versi l’immagine delle dita di Aracne "agilissime nell’agglomerare e sfilacciare la lana, nel far girare il fuso, nel muovere l’ago da ricamo, e che a un tratto vediamo allungarsi in esili zampe di ragno e mettersi a tessere ragnatele". Incontra Mercutio, nel Romeo e Giulietta di Shakespeare, che entra in scena dicendo a Romeo, afflitto e sprofondato dal peso d’amore: "Tu sei innamorato: fatti prestare le ali da Cupido / e levati più alto di un salto". E manda a memoria un sonetto di Guido Cavalcanti, un lungo elenco di cose belle, tra cui si trova: "E bianca neve scender senza venti".

  

Il vento, le nuvole, le ali, le zampe di ragno. Un impulso elettronico in un microchip (il virgolettato delle prime righe di questo articolo è “rubato” dalle stesse pagine di Calvino). Paolorrossi calciatore era la leggerezza. Di lui non avresti potuto dire che fosse un grande atleta: si reggeva del resto su ginocchia malandate e anche per questo chiuse la sua carriera a soli 31 anni. Oltre a non essere stradotato fisicamente, tecnicamente non eccelleva in niente di particolare: non aveva il dribbling di Garrincha o Van Basten, la tecnica balistica di Platini o Zico, non era potente, non segnava in acrobazia, non aveva stacco di testa; non aveva neppure il carisma trascinatore del leader. Aveva per di più un nome come tanti, di quelli che non dovrebbero restarti scolpiti nella mente (tutti noi abbiamo conosciuto un Paolo Rossi: io, modestamente, ne avevo uno come compagno di banco al liceo). Eppure Paolorrossi è stato un lasciapassare, una parola magica, un codice universale di comunicazione: dicevi Paolorrossi e diventavi amico. Sempre modestamente, grazie alla pronuncia del suo nome, rigorosamente attaccato, nel 1985 ho fatto amicizia con Alioum, un ragazzo camerunese alla mensa universitaria di Besançon durante il mio primo Erasmus – poi ci siamo scritti per anni, sempre girando intorno a quel nome – ; qualche anno dopo ho sostenuto uno dei dialoghi più surreali con un taxista a Kadıköy, sulla sponda orientale di Istanbul, che parlava solo turco e, una volta capito che ero italiano, ha ininterrottamente detto solo "Paolorrossi" – io ricambiavo gentilmente, e con grande sua soddisfazione, ripetendo "Tanju Çolak" all’epoca Scarpa d’oro del Galatasaray (per fortuna il taxista non teneva al Fenerbahce).

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Il calciatore Paolorrossi, parola-chiave che apriva mondi, è stato vento, nuvole, ali, zampe di ragno e i suoi gol, per me, saranno sempre "bianca neve scender senza venti".

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