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Cosa resta dell’Italia di Paolo Rossi

Giuliano Ferrara

Nel 1982 il nostro era un paese in fiducia, animato da un nuovo individualismo. Oggi di entrambe le cose non sembra restare traccia. È quello che nel calcio e nello sport si definirebbe ciò che fa la differenza

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La morte di Paolo Rossi, amabile goleador della Nazionale campione del mondo, addolora in sé e come scansione del tempo. Si tira dietro la riproposizione in prima dell’Italia degli anni Ottanta al suo esordio. Quando chi dirige, sviluppa, cambia e irrobustisce questo giornale appena nasceva, e coloro che lo hanno fondato un quarto di secolo fa avevano trent’anni già compiuti, bene o male, più male che bene (ovvio). Riecco Pertini, lo scopone, i governi Spadolini II, Fanfani V, l’imminente svolta dell’esecutivo Craxi in folla con i Bearzot, gli Zoff, i Tardelli e Freddie Mercury, tanto per cantare. Con il telefono a gettone, i sindacati, gli operai, i turni, il Pci che celebra i cent’anni l’anno prossimo a tanto tempo dalla dipartita, gli ineleganti calzoncini corti dei calciatori in un mondo bianco dove non si vedeva ancora il geniale, talentuoso ma ingombrante testone di un Lukaku. Niente virus prostranti, al massimo passate batteriche di colera. Non furono male quegli anni, sebbene non proprio formidabili, bisogna vantarsi solo del futuro, che almeno non c’è e la vanteria ci lascia passabilmente sobri.
       

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La morte di Paolo Rossi, amabile goleador della Nazionale campione del mondo, addolora in sé e come scansione del tempo. Si tira dietro la riproposizione in prima dell’Italia degli anni Ottanta al suo esordio. Quando chi dirige, sviluppa, cambia e irrobustisce questo giornale appena nasceva, e coloro che lo hanno fondato un quarto di secolo fa avevano trent’anni già compiuti, bene o male, più male che bene (ovvio). Riecco Pertini, lo scopone, i governi Spadolini II, Fanfani V, l’imminente svolta dell’esecutivo Craxi in folla con i Bearzot, gli Zoff, i Tardelli e Freddie Mercury, tanto per cantare. Con il telefono a gettone, i sindacati, gli operai, i turni, il Pci che celebra i cent’anni l’anno prossimo a tanto tempo dalla dipartita, gli ineleganti calzoncini corti dei calciatori in un mondo bianco dove non si vedeva ancora il geniale, talentuoso ma ingombrante testone di un Lukaku. Niente virus prostranti, al massimo passate batteriche di colera. Non furono male quegli anni, sebbene non proprio formidabili, bisogna vantarsi solo del futuro, che almeno non c’è e la vanteria ci lascia passabilmente sobri.
       

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Il terrorismo era in fase calante dopo i successi sanguinosi del decennio precedente, i governi italiani fino a Bettino duravano poco e realizzavano abbastanza, le comari litigavano, il socialismo era un mito politico e di liberali c’erano solo piemontesi al Barolo e Pannella, gran rompicoglioni della Repubblica. La chiesa era appena caduta nelle mani capaci e combattive di un santo gran figura di teatro e di un teologo geniale, nel cocktail giovanpaolino e ratzingeriano si agitavano Cristo, fede e ragione. L’Europa era un serpente senza moneta, ristretto, e l’America si godeva Reagan mentre in Russia regnava il Politburo e in Cina il solforoso Deng preparava la rinascita liberalturbocomunista. Esplodevano contemporaneamente la famiglia, i consumi, l’aborto, la Borsa, la rivoluzione della proprietà popolare della Thatcher, e i salari livellati dal sindacalismo Lama-Agnelli della scala mobile furono rimessi in corsa emulativa dal decreto Craxi e dal referendum in cui i cittadini votarono a favore di un taglio dell’assistenza e di una riforma del capitalismo, come si dice ora, guidata da un socialista autonomista che esercitava egemonia sui democristiani di De Mita e sulle terze forze. Un guazzabuglio. 
       

  

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Come si dice nel calcio e nel tennis, l’Italia entrava di nuovo in fiducia, dopo le illusioni e la sbornia e le tempeste di fuoco degli anni Settanta. E al comunitarismo classista delle ideologie si sostituiva gradualmente un nuovo individualismo poi consacrato dalla distruzione del sistema chiuso del comunismo di matrice sovietica e dal provvisorio trionfo della società aperta (c’era già un Soros a fare scuola a suo modo). Di quella fiducia e di quella corsa dell’Io oggi sembra restare poco, tutti sono confluiti a quanto pare o rifluiti nel Noi e nell’Altro, il mondo com’è per certi aspetti sconcerta, ma nel gioco ciclico della storia, che è lineare fino a un certo punto, i calci al pallone del furetto Paolo Rossi furono avvio di un’epoca di cui siamo ancora tributari. La trasformazione pretecnologica ebbe un prezzo, tutto negli anni Ottanta aveva un prezzo, ma ciascuno era convinto di poterlo pagare. Questa la differenza o, come si dice nel calcio e nel tennis, e anche nel rugby e in ogni altro sport, è ciò che fa la differenza.

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