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E' l'evaporazione delle avversarie ciò che accomuna Toro e Juve

Leo Lombardi

Nel momento decisivo della stagione sia i bianconeri che i granata hanno approfittato dei passi falsi delle concorrenti

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Un filo conduttore unisce la stagione delle due squadre di Torino: se la Juventus vincerà il suo nono scudetto consecutivo lo dovrà (anche) all'evaporare delle avversarie più accreditate nei momenti cruciali della stagione; se il Torino riuscirà invece a portare a casa la salvezza lo dovrà alla pochezza delle dirette concorrenti, incapaci di infilarsi tra le pieghe di una crisi come rare volte si era visto nella storia granata. Una crisi che affonda saldamente le radici nella parte pre-Covid della stagione: il Toro è arrivato sfiancato alla sospensione imposta dall'epidemia, con una serie di sette sconfitte consecutive, Coppa Italia compresa. Un'eclisse che aveva costretto Urbano Cairo al cambio in panchina, con l'allontanamento di Walter Mazzarri e l'ingaggio di Moreno Longo a inizio febbraio.

 

Mossa apparsa ruffiana, quest'ultima, con la panchina affidata a uno degli ultimi “figli del Filadelfia”, come venivano definite le
generazioni di giocatori tirate su nel generoso vivaio granata, che aveva nel vecchio stadio la sua tana. Lì i ragazzi crescevano sul campo che aveva visto le gesta del Grande Torino, lì apprendevano che cosa significasse indossare una maglia che (raro esempio in Italia) va oltre la passione sportiva per assurgere a fede laica. In una situazione di crisi totale della squadra, metterla in mano a Longo significava più una richiesta di apertura di credito nei confronti di tifosi arrabbiatissimi che una mossa logica per rilanciare un gruppo spersonalizzato e bastonato ovunque, con il clamoroso 7-0 incassato in casa all'Atalanta come punto più basso della stagione. Persona degna e tecnico puntiglioso, Longo. Ma se in granata aveva riconquistato, da allenatore, nel 2015 un campionato Primavera che mancava da 23 anni, nella sua esperienza da professionista aveva accumulato una salvezza in serie B con la Pro Vercelli e una promozione in A (con precoce esonero) a Frosinone. Un curriculum vitae ancora tutto da costruire, il biglietto da visita meno indicato da presentare in una situazione intessuta di precarietà.

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E i fatti hanno dato ragione a chi pensava a Longo più come uno scudo innalzato da Cairo a protezione dell'ambiente che come tecnico della svolta. Se il Torino perdeva prima del Covid, altrettanto ha continuato a fare dopo. In otto giornate di campionato (recupero con il Parma escluso) è arrivata la miseria di 9 punti, in linea con le squadre che lottano per non retrocedere e che significa un 15° posto umiliante per una tifoseria che non smette mai di essere visceralmente legata alla maglia granata. Domenica a Firenze l'ultimo schiaffo, con la sconfitta numero 19 in campionato (solo la retrocessa Spal e Brescia hanno fatto peggio), l'ottava consecutiva in trasferta.

 

Certo, la stagione del Torino è stata lunghissima: tra pochi giorni festeggerà un anno dalla prima partita, giocata il 25 luglio 2019 al secondo turno di Europa League contro il Debrecen. Un avvio anticipato che ha pesato sicuramente su gambe e testa di giocatori, ma che non basta a giustificare un simile cammino in campionato. La squadra non si è dimostrata all'altezza e, insieme con Mazzarri, ha pagato anche Massimo Bava, chiamato dal settore giovanile a sostituire Gianluca Petrachi come direttore sportivo e silurato a metà maggio per far posto a Davide Vagnati, preso dalla Spal. È arrivato con la fama di decisionista, dovrà convivere con un presidente ingombrante (Cairo delega poco o nulla in ogni campo) e con una squadra da ricostruire, comunque andrà a finire, tra italiani sopravvalutati, stranieri di poco spessore e giovani del vivaio che fanno rimpiangere i Moreno Longo giocatori: ancor prima per la scarsa personalità che per la poca credibilità tecnica.

 

Un panorama sconfortante che non merita un giocatore come Andrea Belotti. Lui nel Torino non è cresciuto, ma è come se lo fosse. Arrivato nel 2015 da Palermo, ha subito incarnato lo spirito di chi indossa la maglia granata, pronto a dare tutto anche oltre il 90'. È stato quello che ha tolto la squadra dagli impacci, quando ha potuto, e per il secondo anno consecutivo è andato oltre le 15 reti stagionali, come avevano fatto in passato grandissimi come Paolino Pulici e Francesco Graziani. Loro, però, quando avevano bisogno di una mano si ritrovavano con una squadra intorno. Altrettanto non si può dire per Belotti. Che, a questo punto, deve decidere che cosa vorrà fare da grande. Una domanda da rivolgere a Cairo che, finora, è stato sì di
parola, non vendendo il suo capitano e centravanti. Ma sarebbe ancora una volta delittuoso non provare a realizzare un progetto serio intorno a un giocatore così. Lo merita Belotti e lo meritano i suoi tifosi.

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