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Italia-Brasile 3-2: i 90 minuti più belli di sempre

Piero Trellini

Un romanzo racconta la partita dopo la quale il calcio non è stato più lo stesso: 5 luglio 1982, una sfida dall’epilogo già scritto, un risultato imprevedibile

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Le cinque della sera, l’ora delle corride. Un uomo solo è al centro del campo nello stadio Sarriá di Barcellona. Il suo nome è Abraham Klein. Porta un orologio per polso, uno tradizionale, l’altro digitale. Non può lasciare nulla al caso, non può di certo permettersi di sbagliare. Proprio ora, proprio oggi. È il suo giorno. Una settimana fa è stato devastato dalla scomparsa del figlio. Ora sta per dirigere la sua unica partita nel dodicesimo Campionato Mondiale di Calcio che si sta disputando in Spagna: l’ultimo incontro del gruppo C: Italia contro Brasile. In palio c’è la semifinale. Chi passa si ritrova tra le prime quattro al mondo. È un lunedì, Klein per essere qui ha superato ogni genere di pregiudizi, difficoltà e manovre politiche. Ma è un sopravvissuto e non ha paura più di nulla. Sarà per questo che ostenta lo spazio della sua fronte impomatandosi i capelli all’indietro, come si usava una volta. Forse non renderà giustizia ai suoi quarantotto anni, ma a lui sta bene così. Precisione, rigore, limpidezza, onestà e coraggio sono i suoi valori. E Klein appartiene alla generazione che affida all’aspetto il compito di presentarli. Indossa una maglia di cotone a maniche lunghe, completamente nera ad esclusione dell’ampio colletto e dei polsini bianchi. All’altezza del cuore una tasca riempita di tutto il suo orgoglio. Sopra c’è stampato “Referee FIFA” e incastrate tra quelle semplici parole, che fanno di lui un arbitro internazionale del massimo organismo del gioco del calcio, le due facce del pianeta. Su una si trova l’Italia, sull’altra il Brasile. Fa un caldo insopportabile. Trentaquattro gradi all’ombra, sul campo saranno quaranta.

 


Illustrazione di Maria Gabriella Gasparri


  

È venuto in Spagna direttamente da Haifa, dove supervisiona le attività atletiche delle scuole israeliane per l’Istituto della Sanità. Si allena ogni giorno. Dieci chilometri di corsa, due ore di ginnastica, dieta ferrea, verifica della frequenza cardiaca. Alla vigilia della Coppa del Mondo in Messico per abituarsi ad affrontare l’altitudine ha scalato le montagne della Galilea, prima dei campionati disputati in Argentina ha scelto il clima di Città del Capo. Stavolta, temendo che la sua forma fisica non potesse più raggiungere i livelli degli anni passati, ha ingaggiato un preparatore atletico. Klein ha perso nove chili in quattro settimane e ha addestrato il suo corpo a sopportare un carico di stress fisico per centoventi minuti, in modo da essere pronto anche per i tempi supplementari, qualora si rivelassero necessari. Un massacro per un uomo sulla soglia dei cinquant’anni. Ma lui sente di doverlo fare: un arbitro è solo contro ventidue uomini. E deve trovarsi sempre nel punto giusto. Se sbaglia una decisione può rovinare una partita. Lui invece vuole dominarla, per questo studia continuamente i video. Cerca di capire le tattiche delle squadre, conoscerne gli elementi, vedere chi tra loro abbia la tendenza a intimidire gli avversari. O gli arbitri. Lui evita di usare le parole in campo. Il suo ruolo è quello di gestire il gioco, senza dare spiegazioni. Tuttavia, prima di ogni incontro, cerca ugualmente di imparare le espressioni basilari della lingua del luogo. Parla perfettamente ebraico, inglese, ungherese e rumeno, ma anche tedesco, spagnolo, francese e italiano, perché a scuola gli hanno insegnato il latino e le lingue europee sono tutte figlie della stessa madre.

 

Per oltre un decennio ha domato i migliori del mondo e pensa ormai di avere imparato ogni cosa sul controllo. Invece i mondiali spagnoli gli hanno appena consegnato un insegnamento che non potrà dimenticare. Una lezione cadenzata da tre telefonate cruciali che cambiano per sempre il corso della sua vita.

 


L’arbitro è l’israeliano Abraham Klein. Sopravvissuto all’Olocausto, diventa subito un caso politico. Il centro del campo raccoglie tre figure: Zico, Serginho e Klein che tiene il braccio alzato e l’occhio al cronometro


  

La prima risale a marzo. Si attende la lista degli arbitri che prenderanno parte al Mundial, ma con la qualificazione di Kuwait e Algeria le emittenti televisive arabe hanno minacciato di boicottare la Coppa del Mondo se sarà permesso a un israeliano di dirigere un incontro. La Fifa si riunisce. Il giorno del verdetto è fissato per lunedì 15 e quella mattina Klein è avvolto da una insolita inquietudine. Nel 1970 la vendetta di Montezuma non gli aveva consentito di andare avanti nel torneo, due anni dopo, il massacro della squadra olimpica israeliana a Monaco gli aveva impedito di prendere parte ai Mondiali tedeschi del 1974, in quelli successivi la dittatura argentina gli negò la finale. Ora cos’altro poteva accadere? Quelli di Spagna saranno i mondiali di Zico, Platini, Rummenigge, Boniek, Maradona e lui non vuole mancare. Cammina per la casa impaziente, gioca nervosamente con il telefono, alza la cornetta per verificare che ci sia la linea. Finché l’apparecchio finalmente squilla: “Sei uno dei quarantaquattro – comunica una voce dall’altra parte – Abraham ce l’hai fatta, andrai ai Mondiali!”. La sua candidatura è stata approvata all’unanimità dalla cinquantanovesima riunione della Commissione Arbitri della Fifa. La soluzione adottata, suggerita da Artemio Franchi, è stata frutto del solito compromesso diplomatico: gli enti televisivi degli stati del Golfo Persico (Qatar, Bahrein, Oman, Emirati Arabi, Arabia Saudita e lo stesso Kuwait) potranno scegliere se non trasmettere la partita o trasmetterla non mostrando il suo nome in sovraimpressione.

 

Così Klein due mesi dopo prepara la valigia e parte per la Spagna. Non fa in tempo ad arrivare che, a Londra, tre uomini sparano alla testa dell’ambasciatore israeliano Shlomo Argov. È il 3 giugno. Utilizzando l’attentato come giustificazione, tre notti dopo Israele invade il Libano. Esattamente una settimana prima del Mundial. Quel giorno squilla il telefono nella sua stanza d’albergo. È la moglie: “Siamo in guerra, Abraham!”. Il loro figlio Amit sta facendo il militare e i pensieri di Klein corrono a lui: “Non possono mandare una recluta in una zona di tiro”. Invece da quella stessa cornetta viene a sapere che è stato già spedito al fronte. Improvvisamente il corpo di Klein è invaso da emozioni sconosciute. La paura gli impedisce di respirare. Il destino di suo figlio è in mani lontane. E per la prima volta nella sua vita scopre di non avere il controllo della situazione. Tutto quello che riesce a fare è accasciarsi sul letto e piangere.

 

Tre giorni dopo, quando viene a sapere che Amit sta combattendo nel punto più caldo di Damour, a pochi chilometri da Beirut, chiede un incontro con Franchi: “Non ce la posso fare”, sibila. Il presidente della Uefa e della Commissione Arbitri lo fissa negli occhi: “Ne sei certo?”. “Sì, al cento per cento, non posso arbitrare una partita in questo mondiale. Mio figlio sta combattendo in Libano e io da giorni non ho più notizie da lui, non so nemmeno se sia vivo”. C’è una intesa particolare tra i due. Come Klein, Franchi conosce tutti i regolamenti del calcio e le principali lingue del pianeta. Anche lui da giovane è stato un direttore di gara. Ora, mentre sta ascoltando la storia di Klein, è il presidente dell’Uefa, il vicepresidente della Fifa, membro del Comitato Organizzatore dei Campionati mondiali e, naturalmente, il suo presidente, quello della Commissione Arbitri. È un titanico difensore degli interessi del calcio ma qui e ora ha occhi e interessi solo per l’arbitro israeliano. Quando Klein smette di parlare, Franchi abbandona per un istante quel sorriso stretto e autorevole che gli ha sempre conferito la giusta simpatia per essere accettato da tutti. Non vuole adottare una scelta definitiva. Non lo ha mai fatto. Si è ogni volta lasciato tutti i margini di manovra possibili. “Il compromesso è sempre la scelta più onesta per un dirigente”: il suo credo in undici essenziali parole, indispensabili come gli elementi di una squadra. Le ha sussurrate qualche mese prima al giornalista romano del “Messaggero” Lino Cascioli, che lo accusava di sapere in anticipo l’esito del sorteggio dei Mondiali di Spagna. Franchi capisce il dramma di Klein e accetta la sua richiesta di non farlo arbitrare, ma lo invita a restare in Spagna: “Per adesso ti farò scendere in campo solo come guardalinee”.

Passano quasi due settimane, durante le quali Klein non riceve una sola notizia dal fronte. Comincia a temere che il suo ragazzo sia morto. Si gioca Italia-Perù. È il 18 giugno, il giorno del compleanno di Amit. Suo figlio compie vent’anni al fronte mentre lui corre avanti e indietro sulla linea laterale del Balaidos, lo stadio di Vigo. Klein cerca di fare il suo lavoro, i suoi occhi vedono lo strepitoso gol di Bruno Conti, l’opaca prestazione di Paolo Rossi e la celebre caduta in campo del collega, l’arbitro tedesco Walter Eschweller, ma la sua mente è altrove. Terminata la partita torna in albergo e trova un telegramma che lo aspetta alla reception. Lui esita. Poi lo afferra e lo apre.

 

Shalom caro papà,

oggi, come sai, è il mio compleanno. Lo sto festeggiando qui, in Libano; molti miei amici sono morti e il mio cuore è spezzato, ma parliamo molto della Coppa del Mondo ed io sto aspettando con impazienza di vederti arbitrare una partita.

Con amore.

Amit.

 

Klein non riesce a smettere di piangere. Sale in camera e sente squillare il telefono. Dall’altra parte gli sembra di udire la voce del figlio. Pensa a un’allucinazione. Come può Amit, che si trova nel mezzo di una guerra, raggiungerlo nella sua stanza d’albergo? Invece è lui e Abraham è colto da una emozione incontenibile, la più potente della sua vita. Suo figlio ha abbandonato la prima linea e lo implora di tornare ad arbitrare. “Tra meno di una settimana sarò di nuovo guardalinee per Brasile – Scozia”. Ma Amit vuole vederlo in campo. “Ci sarò, ragazzo mio”, gli promette tra le lacrime. Così Klein, ancora stordito, si precipita da Franchi: “Sono pronto, datemi una partita”. Pochi giorni dopo, lunedì 26 giugno, all’arbitro israeliano viene così assegnata la terza gara del girone C tra il Brasile e la vincente di Italia-Argentina. “Farai Argentina-Brasile, contento?”, gli comunica Franchi. Per lui un regalo. Ci troverà invece Italia e Brasile, le squadre del suo destino: prima di questo incontro le ha dirette entrambe cinque volte. In questo mondiale le ha già viste tutte e due da bordo campo. Stavolta sarà lui a dirigere l’orchestra.

 

Convoca sul disco Zoff e Sócrates, i due capitani. Si rivolge al brasiliano e fa saltare la moneta. Testa o croce, palla o porta. Sócrates perde la scommessa. E Zoff prende il campo. Il sole è ancora alto e l’azzurro sceglie di schierare i suoi a destra. Quando calerà saranno gli avversari ad averlo negli occhi. Il calcio d’inizio sarà del Brasile. La folla freme. Per rispettare il protocollo Klein deve attendere le 17.15. Posa la palla a terra chinandosi sul tondo del centrocampo in perfetto asse con la riga che taglia in due metà il campo. È piccolo di statura e non ha quel che si dice un’autorità fisica. Ma riesce ugualmente a imporre la propria legge. Nelle sue pose erette, nei suoi gesti amplificati, nelle sue occhiate teatrali c’è una mimica solenne, autoritaria, quasi bellica.

 

I verdeoro guardano verso la Gol Sur. Il centro del campo raccoglie solo tre figure: Zico, Serginho e Klein che tiene il braccio sinistro alzato e l’occhio fisso al cronometro. Il Galinho, il Galletto, ha il numero dieci incastrato tra le scapole e le mani appoggiate sui fianchi, come se dovesse iniziare una passeggiata. Scatta l’ora. Quarantaquattromila sguardi, ottantottomila occhi, fissano quel signore impettito vestito di nero. Klein capisce che è il momento, prende il fiato e spinge tutta la sua autorità dentro al fischietto. Forse già lo sa: sarà l’ultima direzione di gara della sua vita. È la sua finale.

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