Il murales di Maradona a Napoli (foto LaPresse)

Il plebeismo sempre in agguato che rende difficile essere juventino a Napoli

Umberto Minopoli

Quando si poteva tifare bianconero all’ombra del Vesuvio

Sono napoletano e juventino. Quella del sindaco De Magistris – il populismo pallonaro, la rivalità irriducibile alla Juventus come personificazione del Potere, epitome e simbolo del saccheggio della capitale del sud, abbreviazione del dominio delle istituzioni centrali, dei poteri forti, narrazione dei torti della sua storia unitaria – è una ciancia, una topica, una trovata. Che però è diventata luogo comune, imprinting nella stampa, nei salotti colti, in ogni famiglia. Letteralmente insufflata in ogni dove.

 

Il sindaco di Napoli, dopo una partita decisiva persa senza attenuanti dal Napoli, ha diffuso un proclama, leghista prima maniera, privo di equilibrio e sobillatore. Sproloquiando sulle colpe arbitrali in un’altra partita, quella tra Juve e Inter, del tutto ininfluente per il Napoli. Caduto, invece, per suicidio e autodafé. Il proclama del sindaco, è la prima volta nella storia del calcio partenopeo, sfrutta le passioni calcistiche per titillare i difetti peggiori di Napoli: il plebeismo sempre in agguato, il vittimismo, l’estremismo, la teatralità. Tratta i napoletani, che hanno ben altri problemi, come minorati che, per il calcio, dovrebbero rivoltarsi contro di “loro”: il nord, lo stato, il potere, la nazione, il governo, il Parlamento, il Palazzo, gli ordini costituiti. Che sarebbero tutti contro il Napoli perché tutti contro Napoli. Inconcepibile. Ma, anche, ricostruzione di maniera, posticcia, giustapposta, costruita ad arte. Farlocca. Un effetto scenico che non è nella storia del calcio a Napoli.

 

Immagino un grande napoletano, storico del calcio, Antonio Ghirelli alla lettura di un tale proclama. Questo del sindaco De Magistris è l’effetto di una fase recente, recentissima del calcio napoletano. Dove la gestione cinematografica di De Laurentiis, coniugata con il governo populista della “città all’opposizione” del sindaco protogrillino, induce a torsioni spettacolari, favolistiche, ridondanti e di effetti scenici del fenomeno del tifo. E’ stata la mia una vita, a Napoli, militante: in politica e nel tifo calcistico juventino. Non ricordo un particolare eroismo nello svolgimento della seconda. Può sembrare, vista con gli occhi di oggi (la mostrificazione della Juventus in atto), sorprendente. Invece, assicuro che per oltre 40 anni non è stato affatto significativamente duro, scabroso, scandaloso tifare Juventus a Napoli. Fino ai tempi recenti. Dove una colpevole regia e una strategia a tavolino sta trasformando, in modo ridicolo, la Juventus nel totem colpevole mostruoso dei mali di Napoli.

 

Avevo 20 anni esatti. La Juventus di Altafini, Causio, Bettega e Capello (campionato 1974-75) inflisse, al San Paolo, una tremenda lezione tennistica: vincemmo 6 a 2, con Agnolin che fischiò rigori a raffica. E’, a mio ricordo, la giornata trionfale del mio tifo bianconero. Ricordo solo emozione e felicità. E il titolo a scatola del Corriere della Sera: “Giù il cappello passa la Juve”. Che esibivo in ogni dove. Senza subire reazioni. Oggi sarebbe stata una rivolta. Lì, ricordo, rimediai solo, per spintoni scherzosi, la manica di una bella giacca nuova regalatami da mia madre. Ma non ci feci caso più di tanto. La dissidenza dei tifosi napoletani era, esclusivamente, frustrazione di un pubblico deluso dai propri beniamini. Non ricordo, in 40 anni di tifo juventino militante, altri episodi di significativa tensione per la mia vita di tifoso “per lo squadrone del nord” a Napoli. La rivalità con la Juventus non aveva ragione d’essere. Niente di paragonabile a quella “storica” reale e globale con Inter e Milan, ovviamente. Almeno fino agli anni (fugaci) di Maradona e dei due scudetti del Napoli.

 

Nell’éra di Ferlaino presidente (quella della mia giovinezza), durata dal 1969 al 2000, non era del resto una provinciale recriminazione vittimistica la cifra del tifo napoletano. Come non lo era stata (ma qui posso solo riportare racconti ) negli anni di Lauro: un’altra fase di gestione populista ma diversa assai da quella attuale. Il Calcio Napoli per Ferlaino ma, azzardo, perfino per Lauro, non era sfruttato tanto come rivalità con i ricchi del nord. Né, tantomeno, con la squadra simbolo del dominio calcistico del nord. Il refrain di Lauro, e poi di Ferlaino, era piuttosto giocato sul sogno dell’autopromozione: “Possiamo superare il gap”. Non c’erano primitive invasioni di campo: il trasferimento della competizione calcistica in quella civile e politica. Oscure e comiche pulsioni secessioniste tradotte in linguaggio calcistico. Questo faceva sì che, per tutto il trentennio di Ferlaino, essere juventino a Napoli non ha significato particolari disagi, difficoltà o esagerazioni competitive. Certo il disagio di minoranza invisa. Ma, anche, con frequenti soddisfazioni risarcitorie. Insomma, niente della guerra di oggi. Checché se ne pensi. Tra Napoli e Juventus, anzi, negli anni '70 e '80, funzionava persino un curioso e simpatico canale: di intese societarie e scambi spettacolari (Zoff, Sivori, Altafini, lo stesso Moggi fino a Ciro Ferrara e altri più recenti). Certo nulla che avvicini alla epicità tragica del passaggio di Higuaín.

  

Attribuisco questo aspetto di mitezza del tifo contrario, una certa tolleranza e maggiore socievolezza, a un nostro tratto antropologico: il disincanto. Che è letteralmente, com’è noto, la condizione di liberazione da uno stato di incantesimo. I napoletani, molto profanamente, non si consentono incantesimi eccessivi. In nessun campo della vita. E’ una nota di carattere, di cultura, di colore dell’anima. E’ la cifra, il tratto di saggezza, di un popolo avvezzo ad adattarsi alle avversità con il realismo, lo scetticismo, il risparmio di illusioni, la destrezza nel districarsi dalle contraddizioni, la creatività, senza schemi o giudizi consolatori e paralizzanti. Niente può essere meno “napoletano” di una passione vissuta in maniera spericolata, con aspettative senza rete, fanatismo, assolutezza, intolleranza ed eccesso manicheo. La deriva violenta, identitaria, faziosa e intollerante, lo posso testimoniare da juventino napoletano, non è di Napoli. Appartiene ad altre piazze, altre storie, altre geografie. Appartiene a culture più disposte e predisposte a dondolarsi nel superfluo. Meno laiche e più totemiche della profondità partenopea. Perfino il culto di Maradona, che io ho pesantemente subito negli anni del mito, per me, raffinato e superbo di Platini, non era esibito come angelo vendicatore e punitivo. Ma nel modo, un po’ sudamericano, del riscatto, della aspettativa che, anche a Napoli e al Napoli, la vittoria non è preclusa. E che non c’è un destino, cinico e baro, una congiura nordista che te la sottrae. Anche Napoli può permettersi la vittoria e il capolavoro. Ora tutto è cambiato. Il populismo della città all’opposizione e della società calcistica come impresa cinepanettara stanno cambiando la scena. Con crescenti tratti di intossicazione, teatralità, effetti scenici, spettacolarità parossistica e degrado lazzaronistico. Anche, e persino soprattutto, del tifo calcistico: trasformato da napoletano a napolista. E’ il contraltare, posticcio e provinciale, della grande bellezza, della apertura turistica della Napoli cosmopolita di oggi. E’ il prezzo che Napoli paga alla superfetazione filmica, la grande bruttezza di Gomorra, virtuale, cinepanettara, violenta sulla realtà, concreta ed effettiva, rimossa e deturpata. Questa realtà posticcia invade oggi anche il tifo: una passione che i napoletani erano riusciti a contenere nel perimetro del gioco. E che oggi si cerca di deturpare in scontro civile. Alibi di un sindaco che deve sotterrare, sotto nubi di chiacchiere populiste, il dissesto finanziario e l’impoverimento della città. Alibi di un presidente di club hollywoodiano che identifica gli effetti scenici con l’impresa economica. In questo nuovo proscenio anche per un napoletano juventino, forse, la scena cambia. Speriamo di no.

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