Valentino Rossi è l’unico pilota nella storia del Motomondiale ad aver vinto il titolo in quattro classi differenti (foto LaPresse)

Perché il nuovo Valentino Rossi è il migliore di sempre

Beppe Di Corrado
Spericolato e secchione, è tornato a giocarsi il Motomondiale perché ha capito che per arrivare primi non serve vincere sempre. Fenomenologia del più grande sportivo italiano

E’ rimasta la gara. E’ più della corsa. Valentino, la moto, il tempo, le curve, gli avversari, i giri, la pioggia, il sole, le gomme, il traguardo. I punti. Soprattutto i punti. Come se non ti accorgessi più del resto: c’è, ma non è più al centro del fuoco. Quindi la scritta The Doctor, i colori fluo, le esultanze. Arrivano dopo, come corollario di una storia pazzesca, unica, non replicabile. L’ultimo Rossi è il migliore, ma il secondo piano del corollario non c’entra. Era bello anche quando non c’era soluzione di continuità tra la pista e l’accessorio, tra il pilota e lo showman. No, non è questo. E’ la sensazione di godimento assoluto che prova nel giocarsi questo Mondiale a 36 anni, a correre con l’idea di vincere. E’ incoscienza matura, ovvero la coscienza di cercare la soluzione migliore per arrivare lì, alla fine della stagione numero 19 con il titolo numero 10. Leggenda. Che non sta nella cifra tonda, nella possibilità di prendersi un altro record, perché tanto quelli sono stati già presi tutti, sbriciolati tutti, sono già archiviati, consegnati a un passato immenso che però non è finito. Sta in un altrove. Diverso, perché inedito nella narrazione classica fatta di Rossi finora. Laterale, quindi diversamente centrale. Nuovo, ecco. Almeno per la gente, per il pubblico, per la comunicazione.Valentino sorride all’arrivo di Phillip Island, stringe la mano a Marc Márquez, parla con lui e col casco chiuso è impossibile sapere che cosa gli stia dicendo: lo ringrazia per aver superato Lorenzo? Boh, forse, probabile. Gli fa i complimenti per la gara, per quel fenomenale sorpasso che gli ha garantito la vittoria? Boh, forse, probabile. E’ felice, Vale. Nonostante sia giù dal podio, nonostante il compagno di squadra, avversario e nemico gli abbia preso 7 punti e adesso il margine per il Mondiale sia sceso a 11 con due sole gare davanti.

 

La sensazione che lascia quell’immagine è questa: Valentino gode a correre e adesso gode anche a calcolare. I conti, la strategia, il mezzo migliore per arrivare al fine. Non si deve sempre vincere per arrivare primo. Per anni, per tutta la carriera, Vale è stato raccontato come uno che non pensava alla classifica: s’infilava in una gara, in ogni gara, per vincerla, contemplando così il rischio di perderla. Anche all’inizio di questo Mondiale l’avevano raccontato così: uno che nonostante l’età avrebbe affrontato ogni corsa rischiando, con la sola idea di vincerla. La stagione ha consegnato un’altra verità: a oggi Rossi è in testa al Mondiale avendo vinto quattro gare. Se ne vince altre due arriva a 6, è ovviamente campione del mondo e lo diventa con il numero più basso di vittorie della sua storia da vincitore. Con 6 primi posti ha vinto il suo ultimo Mondiale, nel 2009. Le altre volte, i Gran Premi vinti erano stati 11 (nel 1997), 9 (nel 1999), 11 (nel 2001), 11 (nel 2002), 9 (nel 2003), 9 (nel 2004), 11 (nel 2005), 9 (nel 2008).

 

Adesso può prendersi il titolo anche con 5 vittorie o addirittura con 4, se tiene sempre Lorenzo dietro. E’ forza, questa. Nuova o non nuova che sia, è l’idea realizzata della costanza che è meglio degli strappi: durare è meglio che giocarsela a tutta, ogni volta, come se non ci fosse un domani, come se ciascuna gara valga la vita, dunque la carriera, dunque la gloria eterna.

 

E’ la certezza che Rossi cerchi soltanto una cosa: la vittoria. Quella vera, quella finale, quella che ti consegna il titolo, non la coppa di giornata. Perché puoi scalare il Tourmalet, vincere la tappa più bella e difficile di sempre, ma se poi non ti prendi il Tour a che cosa è servito? Non c’è una sola gara di quelle che Valentino ha vinto negli anni in cui non ha conquistato il titolo che valga quanto i Mondiali.

 

C’è una gara che partendo da una controintuizione spiega bene. E’ quella di Phillip Island del 2003. Lui era già campione del mondo con la sua Honda, fece un sorpasso con le bandiere gialle che sventolavano lungo il circuito: era vietato. Lo punirono con dieci secondi di penalità, passando attraverso i box. Rossi rientrò in pista e cominciò a tirare a manetta. Non aveva bisogno di vincere per forza, perché aveva già conquistato il titolo con qualche gara di anticipo. Eppure accelerava, accelerava, rischiava, rischiava. A pochi giri dalla fine aveva più di dieci secondi di ritardo dal primo, Capirossi. Il team gli chiedeva di non tirare più, lui continuò, prese Capirossi, lo superò e andò a vincere. Provate a chiedere oggi a Valentino se quella vittoria che pareva l’impeto di un folle, di un talento unico che vuole vincere costi quel che costi sarebbe stata così bella se non fosse stata all’interno di una stagione conclusa con il titolo. La risposta è no. Perché Rossi è un animale da vittoria, non da successo. Differenza sottile, ma fondamentale. Perché contraddistingue i grandi dello sport che a un certo punto pensano: qual è il modo migliore per ottenere ciò che voglio? E se lo prendono esattamente come hanno studiato. Usain Bolt non corre le batterie e le semifinali a tutta. Non più. Novak Djokovic si prende ogni torneo dello Slam con prestazioni che vanno in crescendo: non si spinge fino in fondo se non è necessario, ma si può spingere per paradosso se è diventato superfluo. E’ il godimento della vittoria.

 

L’ultimo Valentino è quello inatteso solo per chi non lo conosce bene. Perché chi lo frequenta, chi lo vede, chi gli parla, sa che questi anni sono stati una lunga preparazione di questo Mondiale: la ricerca di una possibilità, la tenacia con cui si resiste da vincitore di tutto a vedere gli altri che ti sorpassano, gli altri che hanno dieci anni in meno e qualche decina di chilometro orario in più. Si sono chiesti in molti: perché? Perché uno che ha vinto tutto come l’ha vinto lui non ha già smesso? Da re, anzi da imperatore di uno sport che gli deve tutto. Ha l’età per farlo da qualche anno, non sarebbe sembrata una resa, ma solo una pagina chiusa. Avrebbe avuto l’onore, il ricordo perenne, la gloria eterna. Non avrebbe dovuto vedere i suoi fan diventare suoi rivali e a volte anche suoi dominatori. C’era già passato, poi. Nel 2006-2007, dopo il mondiale vinto nel 2005, faticava e cominciarono le critiche. Feroci. Smetta, scrivevano. Basta, raccontavano. E sempre quella domanda: perché? Vale continuò e vinse il Mondiale 2008. Poche settimane prima della fine, scrisse un articolo per il Giornale: “Scrivo da Sepang, dove ho appena vinto la nona gara della stagione MotoGP 2008, dopo aver già conseguito l’ottavo titolo mondiale della mia carriera. Riassumendo, non mi sono ancora svegliato da un sogno che, nel frattempo, è divenuto realtà. Il mio sogno non era quello di uscire dalla crisi sportiva e personale che certamente conoscete. Uscire dalla crisi non era un sogno, era una certezza: sapevo che ne sarei uscito. I sogni però, purtroppo, non bastano per uscire dalle crisi. Serviva essere svegli, anzi sveglissimi, stringere i denti, chiudere un occhio, talvolta entrambi, di fronte alle tante parole scritte, dette, gettate al vento per raccontare le mie sfortune, i miei ‘guai’, e… tirare fuori gli attributi. Il ‘sole’ non se n’era andato. Il ‘sole’ era stato oscurato dal buio profondo della crisi stessa, e io lo sapevo. Dovevo solo cercare il sole. Il sogno vero, invece, era quello di uscire dal momento ‘meno vincente’ della mia vita nel modo che si addice agli Uomini: testa alta, lavoro, cuore in mano, lavoro, memoria lunga, lavoro, concentrazione fissa sull’obiettivo e ancora lavoro (…). Non ho vinto solo in pista: ho vinto anche le critiche e le lungimiranti previsioni di chi mi dava per finito. Lo sanno anche i bambini che non bisogna dare giudizi troppo affrettati. Ma soprattutto ho cambiato tante cose (non solo le gomme) e… ci ho messo la faccia (non solo sul casco). Ho anche imparato a perdere, in tutti i sensi, e ho compreso ancora meglio il significato e il sapore della vittoria”.

 

E’ successo ancora, dopo. Non più di due anni fa: la crisi con la Ducati, la fatica pazzesca nel provare a sentirsi se stesso, la rincorsa continua agli avversari: Vale che diventava sempre più maturo e i rivali sempre più giovani. Di nuovo, ancora, quella domanda: perché? Il sottotesto era il ritiro, a quel punto secondo molti più naturale di prima. I giornali scrivevano: il re che non sa ritirarsi. Ecco, forse è vero. Manca il seguito: non sa perché non vuole. Perché evidentemente quello che sa, che ha sempre saputo è che un’altra possibilità avrebbe potuto averla. Bisognava aspettarla. Cercarla. Forse c’è una data chiave: 29 giugno 2013. La vittoria ad Assen, in Olanda, una delle sue case. Non arrivava primo da tre anni. Tre anni. Mille giorni. Vincere è un’abitudine, è un’attitudine. Se la perdi rischi di non trovarla più. Perché se lasci che l’immagine di ciò che eri ti insegua, non ne vieni fuori. Valentino ha messo davanti gli altri ricordi, quelli dell’altra rinascita, della rimonta, del ritorno 2008-2009. Che cosa è cambiato? Niente è cambiato. Integro lui, serviva la moto.

 

Quel giorno Rossi è tornato Rossi. Comeback kid, come altri grandi, immensi sportivi. Perché solo se sei un monumento puoi farcela. Riconoscere il momento in cui ti puoi infilare nella crepa di qualcun altro, di chi magari ti ha tolto successi e gloria; capire se il corpo, la testa, il mezzo – se c’è – sono pronti. Quando gli altri decretano la tua fine e tu hai ancora voglia, forza, talento, coraggio. Come ha fatto Andre Agassi, che era sceso fino al posto 141 della classifica Atp, dopo essere stato il re, il campione, la star. Riprendersi tutto, ripartendo da sotto zero.

 

S’è preparato, Rossi. Perché Rossi c’è, come dice ogni volta Guido Meda. C’è e c’è stato. S’è mosso, si muove. “Come un ballerino a cui riesce il passo impossibile, in una vita di fughe e inseguimenti su pista, Vale in questi due anni ha superato l’avversario più forte che avesse mai incontrato: se stesso”. Lo ha scritto Cesare Cremonini sul Corriere della Sera qualche mese fa, prima dell’inizio di questo Mondiale, ma dopo la fine di quello precedente. Perché l’anno scorso, con il secondo posto nel Mondiale, i due gran premi vinti, i 13 podi, deve aver capito che bastava poco. E’ quello che ha portato gente come Giorgio Terruzzi, che lo conosce da una vita, a scrivere questo: “Contiene e preserva un tesoro raro ed enorme, ciò che gli permette, ad anni 36, di correre dentro un altro Mondiale, un’altra stagione, un’altra sfida, da protagonista, da candidato al titolo 2015. Un candidato clamorosamente credibile. Ciò che autorizza ciascuno di noi a far crescere altre aspettative, nuove pretese. Come fu in un tempo remoto, come è stato per un’intera epoca”.

 

[**Video_box_2**]Ciò che c’è è un repertorio conosciuto a molti, ma non a tutti. Perché quel corollario di cui s’è già parlato, quell’accessorio, quel mondo che è stato il contenitore del Rossismo ha un po’ oscurato. Non dev’essere stato né un caso, né un capriccio. Valentino ha tenuto per sé e per pochi ciò che c’è dietro tutto il suo essere pilota: una preparazione maniacale, personale, del team. Ai box, dove si ferma fino a notte fonda per vedere e seguire ciò che accade sulla sua moto; con i progettisti, gli ingegneri, con tutti. Poi il fisico: Valentino è magro, integro, in forma. Pronto. Palestra e cura, un talento spaventoso, ovviamente. E poi, per dirla come la direbbe Terruzzi: “Una configurazione mentale cocciutamente aderente al contesto dentro il quale muoversi, agire, osare. Rossi tiene in forma soprattutto il suo approccio all’agonismo, qualcosa che profuma ancora di adolescenza, che alimenta – insieme ad una foga agonistica sprovvista di concessioni – la voglia di giocare, di battersi giocando. Nelle espressioni e nei gesti fanciulleschi sta gran parte di ciò che arriva come conseguenza puntuale. Il desiderio di lottare, afferrato e coltivato, perché lottare costituisce un punto di orgoglio. Esattamente come accadeva al Valentino diciottenne, ventiduenne, trentenne. Ogni giro, ogni corsa, ogni gara, come una provocazione raccolta da un bambino cocciuto. Certo di sapere come fare, autenticamente convinto di farcela, alla fine, contando su se stesso. Su una strepitosa intensità interiore, profumata di fresco”.

 

Valentino è Valentino, qualunque cosa faccia, comunque la faccia. Una battuta, mica tanto battuta poi, dice che sarebbe riuscito ovunque. In un ufficio qualunque, in un giornale, a capo di una brigata di cucina, in un museo, in un altro sport. Capacità, atteggiamento, attitudine, impegno. Vale lo dice, Vale lo fa. Il padre Graziano ha raccontato più di una volta che da bambino non era lui a imporsi come figura paterna, ma addirittura chiedeva a quel figlio che noi abbiamo visto scapestrato e un po’ folle, di certo sopra ogni riga possibile, di guidare qualunque attività pratica: montare una bicicletta, sistemare una minimoto, salire su una scala per prendere qualcosa o per aggiustarne qualche altra. Un bimbo leader. Un bimbo responsabile. E Vale faceva. Con una naturalezza che, a quanto pare, non gli era stata tramandata come esperienza, ma evidentemente era arrivata attraverso il patrimonio genetico. Poi lo studio, la costanza: perché uno non se lo immagina Valentinorossi (tutto attaccato) che va bene a scuola, e invece sì e l’ha confermato più volte: “Ero bravo”. Poi, però ha sempre aggiunto il resto: “Facevo bene un sacco di altre cose. Ma io volevo correre. Forte, fortissimo. Con la moto. E l’ho fatto. Pensa se non ci avessi provato”.

 

E’ uno specialista del tentativo riuscito: ci prova, si impegna, ce la fa. E’ questo che l’ha spinto a liberare ogni possibile genere di azzardo. Come l’idea – molto più vicina a concretizzarsi di quanto sia stata raccontata – di andare in Formula 1. L’ha raccontato pochi mesi fa Michele Lupi, direttore di Icon e amico da molti anni di Vale: era il 2006, Rossi andò a Fiorano a provare. I primi tentativi furono complicati, pieni di testa-coda, di gomme che non riuscivano ad andare in temperatura, di casini con la frizione sotto al volante. Valentino si impegnò e al secondo test cambiò tutto: nel tratto di pista considerato più difficile da gestire, specie per uno che una macchina di Formula 1 la guidava davvero per la prima volta, fece meglio di Schumacher. Per chi conosce la pista o per chi s’appassiona: è la curva a destra dopo il cavalcavia. Ecco lì, in quel solo punto, un debuttante al secondo tentativo su una Ferrari andò meglio di uno campione del mondo per sette volte. Tra chi era presente si generò un entusiasmo unico, qualcosa di vicino all’euforia della storia che si compie in diretta: il passaggio dalla moto all’auto. Fu Rossi a placarlo, dopo averci pensato. A cena, al ristorante Il Circolino di Gabicce, si avvicinò a Stefano Domenicali, all’epoca Team principal della Ferrari (poi sarebbe diventato direttore della gestione sportiva) e gli disse: “Resto sulla mia moto”.

 

Avrebbe potuto, perché non importa cosa, né come, non importa neanche se le basi, quelle che si prendono da bambino o da adolescente, mancano: Rossi può. Semplicemente non ha voluto. Ed è sempre stato così: Valentino è il simbolo della libertà di fare esattamente ciò che si vuole. Quando vuole e come vuole. La verità è che quella frase, ripetuta spessissimo, soprattutto negli ultimi anni, è ancora il suo punto di partenza e d’arrivo: “Vorrei fare il pilota per sempre”. Per questo va, per questo corre. Per quell’idea, mai tramontata, di potere ancora vincere. Perché c’è, accidenti. Accumula motivazioni come nessuno, le alimenta contemporaneamente con la parte più nota e quella meno conosciuta di sé, quella che non traspare, quella che non si vede, quella che soprattutto lui non vuole che si veda. “A pochi millimetri dalla luce, Valentino frequenta la propria ombra”, dice chi l’ha conosciuto da ragazzino e continua a farlo ora. Lì dentro c’è il patrimonio utile, non prezioso nell’accezione comune di prezioso, ma ugualmente pregiato: Valentino sa fare i conti con se stesso e alla riflessione dedica attenzione, ascolto, lavoro. E’ un altro impegno che fa a cazzotti con l’immagine pubblica, del cazzaro allegro e spensierato. La realtà è un ascolto continuo del suo corpo come della sua testa, perché sa che entrambi sono cambiati, cambiano e cambieranno ancora. A 36 anni corri come a 18, ma con muscoli e cervello mutati.

 

[**Video_box_2**]E’ stato raccontato come un ragazzo infinito prima e come un campione infinito ora. E non è vero che sono sempre la stessa cosa. Convivere nello stesso corpo e nella stessa mente non significa essere indissolubili. Complementari sì. Spiega meglio e di più. Non è vero che il ragazzo sia il campione o che il campione sia il ragazzo. Perché i sorrisi, la goliardia, la genuinità sono veri e autentici, ma convivono con il loro opposto. Perché Valentino è cattivo. Altro aspetto del carattere poco esplorato, perché più profondo, più difficile, più inaccettabile se lo attribuisci a uno sportivo simpatico come pochi al mondo e disponibile come quasi nessuno. La cattiveria è fondamentale. Lo dice Michele Lupi: “Tutti pensano che Valentino sia un buono, sempre allegro e gioviale. In realtà è piuttosto cattivo. E’ un duro. E’ uno che ha bisogno, sempre, di crearsi un nemico, un obiettivo. Con Sete Gibernau, che in fondo era un gentile, educato e simpatico ragazzo, Rossi ha avuto bisogno di arrivare a odiarlo, per batterlo. Quindi trovò la maniera di accusarlo di un’offesa personale e cominciò a soprannominarlo Hollywood, per via del ciuffo biondo e di quei modi un po’ affettati. Da nemico, odiando i nemici, li mette nel mirino. Poi li distrugge. Con ciascuno dei suoi rivali, anche con quelli che si dimostrano più amichevoli, arriva sempre allo scontro. In questo è un pescecane, uno dei piloti più cattivi di sempre”.

 

La rivalità diventata odio con Max Biaggi è stata per molto tempo contornata di mitologie varie. Continua ancora oggi. Vale l’ha certificata anche nella sua autobiografia, che comincia così: “Quando abbiamo scollinato verso sinistra, piegatissimi, in terza piena, a 170 all’ora, dalla mia Honda vedevo solo le marmitte superiori della sua Yamaha. Perché lui era ancora davanti a me, all’ingresso della curva che scavalca la collina. Nel punto in cui non hai più un orizzonte. Ero incollato a lui. Eravamo alla fase finale di un duello iniziato da otto piloti e finito con due. Noi due. Io e Biaggi. Alla resa dei conti del campionato 2001. Ultimo giro. Ultimo punto difficile. Ultimo attacco. Ultima possibilità, per me”. Il rivale diventa ossessione. Perché non è vero che il più forte non prova le stesse emozioni del secondo. Anche se conosce la sua forza e a volte la sua superiorità, riconosce il valore dell’avversario. E’ uno dei motivi che lo portano a odiarlo. Il nuovo Biaggi è Lorenzo. Stessa dinamica, stesso risultato. Con l’aggravante dell’essere compagni di squadra nella Yamaha. I rapporti si erano in qualche modo rasserenati, ma adesso sono al minimo storico. Adesso che si giocano il Mondiale uno contro l’altro. Solo pochi giorni fa, Rossi ha ammesso: “Con Lorenzo non ci parliamo più, è vero”. C’è chi si stupisce, c’è chi lo trova distorto rispetto all’immagine serena del ragazzo di provincia. Ma qualcuno ha mai visto un campione vero essere buono? Anche quelli che danno l’impressione di esserlo non lo sono: McEnroe era una iena. Messi, descritto, interpretato e amato per il suo fare apparentemente gentile, in realtà è un acido individualista, incapace di provare pietà per gli avversari e pure per i compagni. Non puoi essere il più forte di tutti se ti dispiace massacrare gli avversari. Se non sei cinico a livelli quasi patologici per una persona normale. E’ la parte che non si racconta, ma che c’è, ci dev’essere ed è meglio che ci sia. Il vincente è prepotente, prevaricatore, egoista. C’è lui e basta. Il tifo ha garantito ai campioni una specie di salvacondotto per la cattiveria: ci pensano gli ultrà o i fan in genere. Prendono loro il peggio e lo manifestano lasciando l’idolo a fare quasi sempre il poliziotto buono.

 

Cattiveria e cinismo sono direttamente proporzionali all’astuzia. Il nuovo Rossi calcolatore, che centellina i risultati giusti per ottenere ciò che vuole ovvero il titolo più bello e importante di sempre ha meno barriere di fronte alla manifestazione della sua cattiveria. Se fai l’incosciente si nota di meno, coperta com’è dall’irruenza, dalla velocità a ogni costo, dalla ricerca del limite da superare.

 

Valentino conta, valuta, sceglie. Una meraviglia, la dimostrazione definitiva che stiamo parlando di un campione unico: lo sportivo più importante della storia dello sport italiano. Di sempre. Chi è che si può paragonare a lui? Giù la testa. Non serve neanche vincere questo Mondiale per dirlo. Bastano i nove precedenti, basta l’oggettiva presa d’atto che l’identificazione di uno sport con il suo principale protagonista ti mette in cima a ogni classifica, ipotetica o reale. Il motociclismo contemporaneo è Valentino Rossi. Lo è per il seguito che ha creato in questi due decenni di carriera. Lo è per i risultati. Lo è per l’immagine. Lo è perché a lui è legata una parte cospicua del fatturato del campionato. Lo è perché tutti quelli che l’hanno seguito si sono ispirati a lui: Casey Stoner, Dani Pedrosa, Jorge Lorenzo, Marc Marquez. Sono tutti figli suoi, anche quelli con i quali c’è freddezza, anzi gelo. Nel modo di correre, nell’idea stessa di essere piloti, Vale è l’ispirazione, è il modello. Lo è perché quei rivali che un giorno saranno eredi sono spesso gestiti direttamente da lui. Come ha scritto qualche giorno fa Benny Casadei Lucchi: “La VR46 Racing Apparel è nata nel 2009 da una necessità diventata intuizione. Quella di curarsi da sé il merchandising.

 

Cappellini, magliette, quelle cose lì e molto altro. Nel 2014 la VR46 ha fatturato oltre 12 milioni di euro. Ha sede non in qualche nazione di comodo, ma a Tavullia, in un edificio dai mille specchi che una volta ospitava un’azienda leader nell’illuminazione di spettacoli (forniva anche Sanremo) e poi uccisa dalla crisi. Dà lavoro a gente del posto, 35 dipendenti. Anche i capi sono locali. O meglio: sono gli amici di una vita del Vale. Sono l’ad Alberto Tebaldi, l’Alby accanto a Rossi fin dai primi Gp, e l’amico fraterno di sempre Alessio Salucci detto Uccio. E la VR46 cresce. Ora non si limita più a curare il merchandising di Valentino. E tocca il cuore pensare a chi diede a Valentino l’idea di allargare gli orizzonti. Fu l’indimenticato Sic, nel 2010, quando gli chiese di produrre il suo merchandising. Via via si sono rivolti alla VR46 altri big del mondiale: da Marc Marquez, a Dani Pedrosa, a Cal Crutchlow. Dalla Yamaha stessa a Repsol e Bridgestone. Un successo fatto di colori, di stile, di qualità che ha attirato anche altri ambienti. Da tempo è cliente Tony Cairoli, pluri campione del mondo di motocross. Ma la vera conquista di altri mondi è iniziata a giugno con la Juve: accordo di 4 anni, prodotti in vendita da settembre”.

 

Rossi è il motociclismo perché la sua presenza ha cambiato questo sport dalle fondamenta. Lo si è capito qualche settimana fa, durante la gara di Misano. C’erano lui e Lorenzo in difficoltà, per una scelta sbagliata sulle gomme: in pista uno dietro l’altro per marcarsi senza vedere che la gara stava scivolando altrove, in mano a qualcun altro. Poi Lorenzo è rientrato ai box, ha cambiato le gomme e ha cominciato a tirare. Troppo. All’ingresso di una curva è andato lungo, per terra e fuori gara. Esultanza da stadio. Ciò che non s’era (quasi) mai visto in un circuito, perché non si gioisce della caduta di un avversario del tuo idolo. Non è un giudizio morale, ma la constatazione di una nuova èra che è direttamente collegata a Vale. Come altre, però. Come il rito che ha generato: quanti prima di lui conoscevano orari, luoghi e date delle gare delle motociclette? C’era un gruppo di appassionati e stop. Vale ha modificato la percezione, ha allargato la nicchia, l’ha trasformata in una mini-massa. Il prolungamento della carriera fino a questa stagione che nessuno s’aspettava, ma che tutti attendevano, è la dimostrazione del teorema. La gente, la folla, la sensazione dell’happening, la voglia di vedere, di esserci. Valentino è un rivoluzionario, oltre che un guerriero dello sport. Quanti sono quelli nella storia che si sovrappongono almeno per un periodo alla loro disciplina? Hai Michael Jordan. Hai Ayrton Senna. Hai Roger Federer. Hai Michael Phelps. Hai Eddie Merckx. Valentino in pista, oggi, a 36 anni, con la possibilità di vincere il titolo numero dieci della sua carriera è una storia incredibile. E’ lo sport che si piega in curva, prima di un rettilineo. Vede il traguardo. Accelera. Si gode la velocità, comunque vada.

 

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