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Memoria critica

Ciò che non si ricorda di don Milani, profeta della decivilizzazione

Giuliano Ferrara

Di lui nulla se non bene. Eppure la sua lode della disobbedienza virtuosa mi è sempre sembrata rischiosa, la sua pedagogia anticlassica una corsa nichilista contro il tempo

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Non ho nulla contro don Milani, e il fatto che fosse un prete burbero, manesco, sboccato, me lo rende anche simpatico. Ma era un profeta della decivilizzazione, la sua lode della disobbedienza virtuosa mi è sempre sembrata rischiosa, la sua pedagogia anticlassica una corsa nichilista contro il tempo.

Voleva fare dell’alunno il progetto di un cittadino eguale costruito sulla diversità contadina e sulla sua cultura: vaste programme. Voleva escludere emulazione, competizione, selezione, che sono tre chiavi di volta del fare e del sapere nel mondo antico, in quello medievale e in quello moderno e ultramoderno, oltre a onore, compassione, cavalleria, obbedienza. Che don Milani, insieme con il più complicato e vario ma altrettanto rischioso Pasolini, sia diventato l’Indiscutibile, il Maestro universale, il Santo pedagogo aureolato dopo il mezzo martirio psicologico da Sant’Uffizio e una mezza lite con i tribunali per la storia della chiamata di leva, questo la dice lunga sull’operosa destrutturazione o decostruzione della cultura politica e sociale contemporanea, della cultura senza aggettivi.

La piazza di Vicchio nel Mugello è molto ampia, bella, solare perfino di novembre, almeno di tanto in tanto. L’ho frequentata a intermittenza per due mesi, a un tiro di schioppo da Barbiana, quando comiziavo in modo vano e illustre contro Di Pietro alle elezioni, cercando e ottenendo la sconfitta come un blasone di nobiltà. Con i cattolici progressisti succedeva che si facessero due chiacchiere, e certo non si parlava di politica, già finita allora, né delle elezioni. Si parlava di don Milani, morto nel 1967 e sepolto da quelle parti, un prete che aveva lasciato un ricordo indelebile e una leva di amministratori e convinti, felici sbandieratori della sua ferrigna opposizione alla logica dell’evoluzione in economia, nell’antropologia dei luoghi, nell’insieme di concetti, di sapienze e di tecniche utili allo sviluppo. Emergeva a tratti una riserva, a trent’anni dalla morte del profeta, sul suo modo di essere e sul suo modo di proporre il proprio carattere dominante e disobbediente per forza. Ero colpito dal fatto che quella riserva non avesse lasciato alcuna traccia ufficiale: di don Milani nulla se non bene, seppure il peccato di una certa superbia in favore degli ultimi, confermati e idolatrati nel loro posto al fondo della scala sociale, fosse evidente.  

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A giudicare da Michele Gesualdi, che era presidente della Provincia e che mi ricevette con garbo istituzionale come candidato nientemeno che di Berlusconi contro il suo persecutore, i risultati della scuola di Barbiana furono ottimi. Gesualdi era stato il miglior allievo di don Milani e compariva come un politico perfetto, integrato con stile all’istituzione che presiedeva. Nessun profeta è in realtà privo di una patria per le sue idee, premonizioni, per i suoi entusiasmi, per i suoi eserciti. E don Milani ha fatto quel che ha fatto e quel che ha voluto, scrivendo con energia letteraria la sua visione del mondo a venire, ragione per la quale merita rispetto e ricordo a cent’anni dalla nascita. Ma rispetto e ricordo comprendono la rivisitazione critica, anche stroncatoria, anche demolitoria, di un manifesto di tutte le disobbedienze che attribuiva virtù assoluta a tutti gli equivoci che oggi raccogliamo ogni volta che la cultura, pacifista, antiautoritaria, antistatale, si raduna a celebrare i fasti di quel colossale laboratorio sociale del nulla che siamo diventati, nel mondo parzialmente decivilizzato in cui abitiamo.

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