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Contro la società del “18 politico”

Carlo Cottarelli

Il dibattito sul merito cela il vero tema: abolire i voti a scuola non ci salverà dall’iniqua redistribuzione del reddito

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Continua il dibattito sul “merito” riaperto in Italia dalla ridenominazione del ministero dell’Istruzione in ministero dell’Istruzione e del Merito. Il problema di questo dibattito è che viene condotto in gran parte in termini astratti, ripetendo ormai in circolo le stesse argomentazioni. In realtà, a meno di voler prendere posizioni estreme – ossia, da un lato, che solo il merito dovrebbe essere rilevante nel distribuire i “premi” della vita e, dall’altro, che ogni distribuzione dei premi che non sia del tutto egualitaria è inaccettabile – la vera questione è se, nell’Italia attuale, il merito sia sufficientemente premiato.

Ma partiamo dal dibattito sul merito. Il ruolo che il merito deve avere in una società è strettamente legato al concetto di giustizia sociale che riteniamo appropriato e al ruolo che il mercato e la competizione debbano avere nella distribuzione del reddito rispetto allo stato. Mi rendo conto che sto semplificando, e che il dibattito è più ampio, comprendendo il ruolo del merito anche in altri ambiti, per esempio la scuola. Ma l’idea è la stessa: vogliamo un mondo in cui esistono differenze più o meno marcate nella distribuzione del reddito e, per esempio, dei voti scolastici, o vogliamo un mondo in cui il reddito è distribuito in modo egualitario e si aboliscono i voti a scuola?

 

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I sostenitori del merito pensano che la natura umana richieda che chi è bravo sia adeguatamente compensato e che, in termini di distribuzione del reddito, siano le forze di mercato a decidere quanto debba essere il giusto compenso. Se così non fosse, da un lato non ci sarebbero adeguati incentivi a dare il meglio di se stessi e dall’altro prevarrebbero logiche clientelari nella distribuzione dei risultati: si premierebbe chi è più bravo a farsi raccomandare e non chi ha talenti. Realizzare questo ideale di meritocrazia richiede due cose. Primo, che ci siano punti di partenza sufficientemente livellati; da qui l’enfasi sulla disponibilità per tutti di una educazione adeguata, anche nei primissimi anni di età. Secondo, meccanismi di concorrenza per fare in modo che, al di là dei punti di partenza, la gara sia una vera gara e per evitare che un mercato viziato da poteri monopolistici e rendite di posizione non consenta di premiare i talenti individuali o d’impresa. Questo sgombra il campo da una comune obiezione di alcuni critici della meritocrazia, ossia che non si premia il merito se non si parte dallo stesso punto e se le regole sono diverse da concorrente a concorrente. Ovvio che non debba essere così.

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Gli oppositori del merito più raffinati, infatti, come il filosofo americano Michael Sandel, non insistono troppo sul mal funzionamento pratico del meccanismo di gara, perché se così fosse basterebbe dare un’opportunità a tutti all’inizio della vita e nel corso della vita stessa. Nelle parole di Sandel: “Il problema della meritocrazia non è soltanto che la pratica non è adeguata alla teoria. Se il problema fosse quello, la soluzione sarebbe nel perfezionare l’uguaglianza delle opportunità, nel cercare una società in cui le persone possano, qualunque sia il loro punto di partenza nella vita, salire davvero dove i loro sforzi e i loro talenti possano portarli. Ma dubito che persino una meritocrazia perfetta sia soddisfacente, sia moralmente sia politicamente”.

Gli oppositori del merito ritengono ingiusto lo stesso concetto di gara, e quindi anche la differenziazione nella distribuzione dei premi. Questo, in base a diverse motivazioni. Primo, che merito c’è a essere bravi? Nasciamo con un patrimonio genetico determinato dal caso. Perché dobbiamo premiare il caso? Secondo, nella vita i primi in media sono anche i più fortunati; è impossibile premiare solo il merito. Ma la principale motivazione è il senso di solidarietà che dobbiamo sentire per gli altri, il senso di essere parte di un’unica comunità. Anche qui ci aiutano le parole di Sandel: “Una meritocrazia perfetta vieta ogni senso di dono e di grazia. Riduce la nostra capacità di vederci come capaci di condividere un fato comune. Lascia poco spazio alla solidarietà che può sorgere quando riflettiamo sulla precarietà dei nostri talenti e delle nostre fortune. Questo è quello che rende il merito una specie di tirannia, una regola ingiusta”.

 

Quindi, è proprio il concetto della vita come una gara a essere sbagliato. Se dai il premio a qualcuno, lo stai togliendo a qualcun altro e questo è profondamente ingiusto. Ora, è chiaro che portare all’estremo queste due posizioni è palesemente sbagliato. Il criterio del merito non può essere l’unico che guida l’allocazione delle risorse prodotte. La serie televisiva “Squid Game” descriveva un mondo basato sul merito e l’uguaglianza delle opportunità, ma al vincitore andavano tutte le ricchezze e gli altri perdevano non solo la competizione ma anche la vita. Chi vorrebbe vivere in un mondo di questo genere? Probabilmente neppure il vincitore. D’altro canto l’approccio à la Sanders rischia di togliere incentivi ad accrescere la dimensione della torta attraverso l’impegno personale. E’ sbagliato dire che dare a qualcuno vuol dire togliere a qualcun altro se la dimensione della torta può crescere. Ed è sbagliato pensare che chi ha successo nella vita debba necessariamente essere affetto da quella hybris che Sanders considera inevitabile.

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La conclusione è che occorre la giusta via di mezzo. Come sostengo nel mio ultimo libro pubblicato da Feltrinelli a inizio 2021 (“All’inferno e ritorno – Per la nostra rinascita sociale ed economica”), al principio di uguaglianza di opportunità e a quello del premio al merito occorre affiancare un principio di solidarietà che modera gli eccessi del mercato e che redistribuisce per evitare che tali eccessi minino i princìpi di convivenza sociale. Questa solidarietà è parte della nostra Costituzione, anche tramite il principio della progressività della tassazione.

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Dopo questo chiarimento concettuale, la domanda che occorre porsi è: rispetto all’Italia della seconda decade del XXI secolo, siamo nella giusta via di mezzo? Il merito è riconosciuto sufficientemente? E la mia risposta è negativa. Come sostengo nel mio citato volume, mancano prima di tutto politiche volte a dare un’opportunità a tutti, il che si manifesta in un ascensore sociale che non funziona. Per quanto riguarda il criterio del merito, il recente libro di Lorenzo Codogno e Giampaolo Galli (“Crescita economica e meritocrazia – Perché l’Italia spreca i suoi talenti e non cresce”, il Mulino, 2022) è pieno di esempi che dimostrano come nel nostro paese rapporti personali, raccomandazioni politiche, catene di potere, lobby di vario genere hanno una presenza del tutto eccessiva e che questo ha penalizzato il funzionamento della nostra economia negli ultimi decenni. Attenzione, questo non vuol dire che si è redistribuito troppo. Vuol dire che si è redistribuito male, anche qui seguendo i poteri di pressione più forti perché meglio organizzati, piuttosto che sostenere chi è davvero in difficoltà. Questo è evidente, per esempio, nel concentrarsi della povertà in alcuni settori poco protetti, come quello dei giovani.

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Già, i giovani. Dispiace vedere tanti studenti manifestare contro la meritocrazia in questi giorni. Una scuola che non distingue sulla base dell’impegno e dei risultati ottenuti è una scuola che solidifica le differenze sociali perché, tanto, se sei nato da una famiglia benestante e con gli appoggi giusti un buon lavoro lo trovi comunque, mentre se provieni da un contesto difficile, hai bisogno che queste capacità ti siano riconosciute per avere un futuro migliore. E, diciamolo, poi non c’è nulla di nuovo in questa fuga verso l’appiattimento. Mezzo secolo fa già si parlava del “18 politico”. Forse è da lì che sono cominciati i problemi dell’Italia.

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