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il commento

Ci si indigna per la vittoria della destra ma non per le proteste delle donne in Iran

Giuliano Ferrara

Dobbiamo riscoprire l’intollerabile assoluto, ristabilire una scala calibrata delle cose per cui vale la pena di ribellarsi, di fare anche il niente che si può fare. Dobbiamo sentire gli autocrati come nostri nemici, in modo personale e attuale

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Bisogna sentire gli effetti della tirannia e dei suoi misfatti su di sé, bisogna fare come se quel che succede in Iran fosse la manifestazione di una tragedia dietro l’angolo di casa, invece dopo anni di appelli insinceri all’indignazione contro banali avversari politici o ideologici, nel pieno di una grottesca campagna per la salvezza addirittura del pianeta, lo sguardo sempre di sguincio rivolto al futuro che canta un domani di buone intenzioni, salvo mettere in discussione mediatica perfino il diritto di un popolo indipendente di respingere un’invasione blindata di assassini, ecco che il presente della vita e delle libertà negate ci scivola addosso.

 

I capelli delle ragazze iraniane, la crocchia tagliata, il foulard islamico aggiustato, il fiume di sangue sparso da una “polizia morale” che spara e uccide per difendere l’onore di una divinità che pretende di essere l’unica, e anche la nostra, tutto questo dimostra, ma noi non lo capiamo, “il vero carattere della tirannia quando, privata di ogni fascino e romanticismo, impone cose cattive e squallide alla gente comune” (citazione da Gordon Rupp, “Studi luterani”). Gli autocrati sono nostri nemici, dobbiamo sentirlo in modo personale e attuale, cosa difficile in tempi di inflazione, bollette stratosferiche, timori per il lavoro e il reddito. I diritti negati con l’esercizio della forza bruta, nella dimenticanza o nella distrazione dell’occidente, sono una realtà un po’ diversa dalla retorica occidentale dei diritti, che da noi in certi casi soffrono mentre a Teheran stramazzano di strada in strada per una capigliatura, per un fazzoletto, per una treccia.

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Il liberalismo democratico non è una passeggiata incantata, l’indignazione non è un sentimento morale a buon mercato, è un’armatura politica che società civile, partiti, stato, comunità devono considerare come il corpo carnale della nostra coscienza di esseri umani. I ragazzi che occupano il liceo Manzoni contro le pratiche di scuola e lavoro, e assurdamente contro la vittoria elettorale della destra, invece di scatenare l’inferno delle loro voci per il ritiro dell’ambasciatore italiano a Teheran, devono capire che il loro è un wokismo da polizia morale di regime, non una rivolta indignata.

 

E tutti noi, tutti, dobbiamo riscoprire l’intollerabile assoluto, ristabilire una scala calibrata delle cose per cui vale la pena di ribellarsi, di fare anche il niente che si può fare, esigere che l’autorità pubblica e le comunità private diano sbocco ai criteri di vita in cui affettiamo di credere protestando, elevando un muro simbolico a ogni forma di dialogo con la gentaglia che perseguita e uccide decine di Saman ogni giorno, come è accaduto con il familismo amorale pachistano nel nostro paese per un bacio rubato dal telefonino e come accade per una pettinatura tra i mullah.

 

Le cose cattive e squallide sono tante, nessuno è innocente, nessuno di noi è innocente, l’indignazione per altri è corta di raggio e di memoria, è un farfugliamento moralistico, agli oppositori di Putin vengono comminate a grappolo pene e sentenze carcerarie tremende, le frontiere vengono di nuovo chiuse, sono in gioco l’inviolabilità legale personale, la libertà di espressione, quella vera, non quella di Snowden e di Assange, ma la potenza simbolica della strage dei capelli deve riscuotere cura, attenzione, animo, protesta politica con ogni mezzo possibile, perché è un teatro della crudeltà fondato sull’esproprio della fede a vantaggio della corruzione barbarica di un pezzo di mondo con cui abbiamo commercio, qualcosa che possiamo vedere in atto e dobbiamo vedere e contrastare senza abbassare lo sguardo.

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