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Gente d'alta quota: persone dure dall'aspetto tenero

Costantino della Gherardesca

Da sempre le montagne sono considerati luoghi idilliaci. In realtà sono aspre, come aspri e cinici sono gli individui che vi sono cresciuti. Un viaggio dove qualsiasi intelettuale metropolitano è considerato "uno straniero" in paese

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Ma che ci trova d’innocente la gente nelle montagne? Fin dai tempi dei naturisti tedeschi sono considerate dei luoghi idilliaci, ma io, come Annie Proulx in Close range: Wyoming stories, le vedo aspre, spietate… E la durezza di questi luoghi non può che allevare persone altrettanto aspre e spietate. Per esempio, quel signore che mi sorride dalla porta del rifugio. E’ facile immaginarselo mentre ci prepara dei rösti, tanto quanto è facile immaginarselo un vero gentiluomo con le sue mucche, ma meno con sua moglie.

 

Luoghi duri dall’aspetto tenero, come la gente che li abita. Il Kobe beef è la perfetta allegoria di questi montanari: tanto buoni e tanto morbidi perché è una vita che vengono presi a mazzate. Duri come il signor R. di Samedan, villaggio vicino a Sils, dove mi trovo adesso. Quest’estate, mia sorella e la sua amica Caterina, sono state in vacanza nel capanno da pesca di R. in Islanda. A viaggio finito, R. le ha fatte montare in macchina per accompagnarle in città, ma a un certo punto si è fermato e ha fatto scendere la settantenne Caterina accanto a un fiordo sperduto, a non so quante centinaia di chilometri da Reykjavík. Secondo R., il giorno che era arrivata dall’Italia, Caterina non aveva fatto la sua parte di pulizie, e questa era una punizione legittima. A mia sorella, invece, ha offerto a possibilità di restare a bordo, ma lei ha preferito non abbandonare la sua amica. Con qualche difficoltà, che inevitabilmente è diventata divertimento, le due hanno raggiunto l’aeroporto in quattro giorni.

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Ho appuntamento con un oculista dei grigioni. Mi chiede di aspettare un attimo in sala d’attesa e chiude la porta. Passano cinque minuti. Passano dieci minuti. Passa un quarto d’ora. Preoccupato, chiedo alla segretaria di dire al dottore che ho fretta. “No, no, no, meglio di no… mi dispiace” mi dice con voce tremante, “non posso aprire la porta quando è chiusa.” È terrorizzata.

 

Nel classico horror americano (da Evil dead di Sam Raimi in poi) un gruppo di ragazzi si ritira in un capanno nei boschi, proprio come quelli che vedo qui intorno, e lì succedono inaspettate atrocità. In questi film l’agente della violenza non è mai rappresentato in carne e ossa. E questo perché per noi mediterranei è impossibile immaginare un tizio che abita in questi capanni tutto l’inverno. L’altro montanaro per noi è un concetto troppo alieno. Ci viene molto più semplice immaginarci un demone silvano, un krampus o una qualsiasi forza malefica disincarnata, come in un film di Robert Eggers.

 

Facciamo una piccola passeggiata. Gli altri indossano uno zaino, io un gilet di pelle. Arrivati al rifugio, mi accorgo che non siamo soli. Ci sono delle capre, mimetizzate contro il legno delle capanne, come delle falene.

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Nietzsche ha trascorso parecchie estati da queste parti, per la precisione a Sils im Engadin. Mentre ammiro il lago, mi rendo conto di quanto la vita sia stata spietatamente ironica con lui: il filosofo che più di ogni altro criticava il moralismo, ebbe il suo esaurimento nervoso nel 1889, mentre passeggiava per le strade di una città italiana particolarmente dedita al lavoro: Torino. Più di un secolo dopo, il “cambiamento” generale che Nietzsche auspicava è avvenuto, ma non si è manifestato con una rivoluzione intellettuale che ha debellato l’ipocrisia, bensì con un continuo cambiamento tecnologico che richiede sempre più fatica agli esseri umani e risorse al nostro pianeta.

 

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A poche ore da qui c’è Leukerbad, il villaggio dove James Baldwin, tra il 1950 e il 1953, veniva a rilassarsi nello chalet di famiglia del suo amante, il pittore Lucien Happersberger. Nel suo breve saggio Uno straniero in paese, Baldwin descrive le reazioni dei paesani che lo vedono per strada. A New York lui è un intellettuale, cosmopolita e omosessuale, figlio della Harlem renaissance, ma per i ragazzi di Leukerbad non è che un forestiero nero. Non voglio paragonarmi a James Baldwin. Al massimo a Umberto Smaila, se mai facesse blackface a Sankt Moritz.

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