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La purga degli influencer

Sale l’asticella per accedere allo stardom. Sfigati social, correte ai ripari

Costantino della Gherardesca

Se vuoi vendere cardigan su TikTok, non basta più essere innocente e avere una bella pelle. Devi avere qualcosa da raccontare, perché la falce della scrematura tecnica è dietro l’angolo

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Nel 2005, durante la settimana della moda milanese, c’era un nome sulla bocca di tutti: Serpica Naro, una stilista anglo-nipponica che per creare la sua prestigiosa linea di stivali aveva decimato gli esemplari di rana persico, anfibio la cui pelle squamosa sembra fatta apposta per essere immolata sull’altare dello shoe design. I consumatori di moda dell’hinterland si bevvero la bufala, mentre le più maliziose milanesi si accorsero del trucco: Serpica Naro e rana persico erano anagrammi di San Precario, un collettivo nato nel 2004 per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del precariato, un fenomeno che allora si considerava reversibile, forse perché l’Èra dell’Ingenuità (gli anni Novanta) non aveva ancora esaurito la sua energia.


Ora, vi chiederete voi, per quale motivo mi tornano in mente queste vecchie storielle da nonno di Madison Avenue?
E’ semplice. Ora che si è appena conclusa la nona edizione di “Pechino Express”, mi chiedo quali saranno le sorti dell’entertainment televisivo e, più in generale, quali rotture cambieranno le vie della comunicazione nei mesi a venire. Cosa emergerà di nuovo? E, soprattutto, cosa sparirà dalla faccia della terra?
Tra gli scenari possibili ce n’è uno che sta prendendo forma: la purga degli influencer. Non ci saranno – ahimè – bagni di sangue, ma una cosa è certa: gli standard per accedere alla stardom stanno salendo a dismisura e tante persone entusiaste di apparire senza aver nulla da dire dovranno farci i conti molto presto, perché la falce della scrematura tecnica è dietro l’angolo.


Ad alzare l’asticella non sono solo i brand, che sugli influencer investono e da loro esigono risultati rapidi e quantificabili, ma il pubblico stesso. Con questo non voglio dire che i consumatori siano diventati improvvisamente più attenti e severi, ma c’è un dato di fatto: anni e anni di serie tv di alto livello, con strutture narrative corali e ambiziose, hanno espanso in maniera irreversibile la dimensione dello schermo. Successi internazionali come “Game of Thrones” hanno imposto un nuovo paradigma: la storia non può finire entro i limiti dell’inquadratura, deve esserci sempre un lore (cioè un universo di tradizioni e aneddotica riconducibile alla storia principale: in questo caso, i topoi del genere fantasy) che la arricchisca e le conferisca maggiore profondità e più respiro. La storia e i suoi personaggi devono poter vivere anche (e soprattutto) al di fuori dei confini rassicuranti della messa in onda, quindi non basta più avere pieno controllo di quello che avviene davanti all’obiettivo. Non basta essere truccati e parruccati alla perfezione, avere le luci giuste e un montatore in gamba: devi avere una storia alle spalle, convincermi che sei un essere umano quadridimensionale. Se sei l’ennesimo bel volto occasionale, trovati un lavoro serio, perché noi spettatori surfiamo da anni sulla cresta di un’onda evolutiva che attraversa generazioni e continenti.

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C’è il rischio concreto che qualche sfigato di Instagram, dopo l’ennesima marchetta a una ditta di smartphone ricondizionati, venga ghigliottinato in piazza. Non perché Hbo ci ha fatto diventare John Stuart Mill, ma perché il pubblico ha sviluppato degli anticorpi che gli consentono di distinguere Star trek da Camera Café. Da una parte c’è una serie che fin dal 1966 sa che la storia deve continuare oltre lo schermo, così da alimentare una fanbase che si raduni in festival e convention, che pretenda merchandising e prodotti collaterali che espandano i meri confini dell’episodietto settimanale. Dall’altra c’è una macchinetta del caffè che, invece di respirare la libertà di una fabbrica cinese, deve subire ogni giorno i dialoghi scritti dagli autori televisivi italiani.

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Se vuoi vendere cardigan su TikTok, non basta più essere innocente e avere una bella pelle. Devi avere qualcosa da raccontare. Devi sapere che quei cardigan sono fatti con la lana di pecore scozzesi che hanno rinnegato Judith Butler per riallinearsi al femminismo di terza ondata, che si rifà all’arte di Judy Chicago, cioè ai tempi in cui avere una vagina contava qualcosa. A quel punto, i tuoi cardigan pre-fluidi andranno a ruba tra tutte le donne senza reggiseno della California del nord, la Normandia e la provincia di Busan. Congratulazioni, sei famoso.

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