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Il Foglio del Weekend

Milano è sempre Milano

Michele Masneri

Le cene, le feste, gli eventi. Per ora non ci sono dati ma la città, finito il Salone del mobile,  sembra essere tornata a livelli pre-Covid. Una città in cui i  quartieri hanno nuovi, bellissimi nomi. Reportage  

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Insomma eccola qui, è tornata, più che da bere è da mangiare, forse mangia e bevi: comunque, la Milano del prima. Prima del Covid, della pestilenza, prima dei due anni che ne hanno messo in ginocchio l’orgoglio e temprato la ubris. Ma adesso tutto è perdonato, torna Milano, c’era da scegliere se il lavacro delle colpe e delle sfighe sarebbe stata la settimana del mobile o quella della moda, i due riti identitari; è arrivato prima il design.

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Insomma eccola qui, è tornata, più che da bere è da mangiare, forse mangia e bevi: comunque, la Milano del prima. Prima del Covid, della pestilenza, prima dei due anni che ne hanno messo in ginocchio l’orgoglio e temprato la ubris. Ma adesso tutto è perdonato, torna Milano, c’era da scegliere se il lavacro delle colpe e delle sfighe sarebbe stata la settimana del mobile o quella della moda, i due riti identitari; è arrivato prima il design.

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Il Salone del mobile anzi Supersalone l’ha dimostrato, ha rotto il ghiaccio, ma è solo l’inizio, poi arriveranno MiArt, e poi tutte le altre “week”, vestiti, libri, musica, insomma Milano torna a essere quel colossale palinsesto che è sempre stata e che è il suo forte. Il Salone, si è capito, è un successo, la città si è riempita, ed è tutto come ai vecchi tempi, transumanza da un evento all’altro e da una inaugurazione all’altra. Tra calicini e finger food. Un grande desiderio delle merci ma anche di stare insieme, di toccare. Perché dopo due anni di clausura, e di farsi il pane in casa, c’è una gran voglia di assembramenti, e Milano è la città assembrante per antonomasia. Agglomerata. Agglutinata.

 

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Così dopo gli anni dello stare a casa colpiscono soprattutto le feste: ad aprire le danze la grande cena “in” Triennale offerta da Stefano Boeri lunedì, poi ecco tutti gli eventi dispiegarsi, feste mano a mano sempre meno riflessive, perfezionamento della macchina, perdita dei freni inibitori. Ce n’è per tutti. In questa Milano sospesa dove non si capisce che mese sia, se estate o primavera (quando di solito si svolgeva il Salone); il pr Paride Vitale organizza un finto festone di capodanno, starring Barbara D’Urso, con conto alla rovescia e brindisi. Più riflessiva, nei giardini lussureggianti di via Canova, la cena data da Carlotta de Bevilacqua, padrona di Artemide, che raduna il meglio delle archistar su piazza: c’è Carlo Ratti, c’è Cino Zucchi, Italo Rota, quelli che durante la pestilenza progettavano e teorizzavano la casa e gli uffici del futuro, e adesso il futuro è arrivato. Addirittura il sexy architetto Alejandro Aravena, il George Clooney delle Biennali.

 

C’è naturalmente il sindaco di Milano, Beppe Sala, che insieme a Stefano Boeri è l’eroe di questo salone e di questa città che rinasce, e i due non mancano un evento, forse avranno dei sosia. “E’ stato Sala a battere i pugni sul muro quando in molti non lo volevano, questo salone”, dicono. Intanto: la notte si sposta sempre più in là, come la mascherina. Se al Salone anzi “in Fiera” ti provano, come ovunque, il green pass (mentre i romani che arrivano raccontano atterriti di Freccerosse fatte fermare verso Firenze con passeggeri fatti scendere e circondati da carabinieri come a Sigonella perché privi del certificato), mentre passano i giorni negli assembramenti più giovani la mascherina scivola via, come al Bar Basso, contrappunto notturno del Salone, dove davvero sembra che tutto sia tornato ai tempi buoni. Centinaia anzi migliaia di giovani fuori e dentro, a chiedere il solito “sbagliato” e i toast leggendari, ci sono molti stranieri, i piccoli designer nordici con le loro casacche verdine e gialline, segnale empirico che tutto funziona.

 

E poi il solito: presentazioni di riviste patinate, monumentalizzazione di vecchie glorie del design (il Pratone in piazza San Fedele). Rifacimenti, riesumazioni, riusi, arredamento totale  (la piscina Cozzi affrescata da Maurizio Cattelan). Ma soprattutto assembramenti goduriosi. In tutte le feste c’è sempre, chissà perché, Burioni, accolto come ospite d’onore, forse perché subodora il cluster, o perché il sabba identitario milanese, il ritorno alla normalità e dunque all’assembramento che è la vita di Milano, ha bisogno di una presenza talismanica, un guru antiCovid – archistar scòstati, nemmeno Aravena regge il confronto: tutti vogliono lui, Burioni,  sempre circondato di dame: "senta professore, io ho già fatto la seconda dose, potrei fare la terza?" – e lui spiega, certifica, prescrive, benedice. 

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Pervasività degli sponsor: è il trionfo della merce, è il ritorno della grande Milano della fiera campionaria, dove ogni settimana un pezzo d’Italia si mette in mostra. Un noto marchio di gioielli fa una mostra alla Gam, Galleria d’arte moderna, per inestimabili gioie, e solerti guide tutte tatuate accompagnano gli ospiti e spiegano “ecco il bracciale che la signora Hepburn indossava in occasione del tal film… ecco la chiusura della clip che fu inventata in occasione della prima che la signora Taylor”, e tu vorresti solo ammirare i formidabili Hayez alle pareti, ma non si può, non si vuole, guardi invece la magnifica merce. Accanto, una enorme installazione di fiori che pendono dal soffitto, e appassiranno fino a oggi, sabato, fine della design week, grande metafora botanica. “Così trapassa al trapassar d’un giorno/ della vita mortale il fiore, e ‘l verde: nè perchè faccia indietro april ritorno, si rinfiora ella mai, nè si rinverde”. E ad aprile si replica, altro Salone.

 

Ma intanto si esce fuori, verso porta Venezia, districandoci tra i vassoi tondi lucidi come specchi dove traballano microgelatine deliziose. Esci fuori e ci sono i boni che fanno jogging, le bone fasciate in abiti che a Roma ci sogniamo soltanto, scendono da Suv Mercedes dorati, passano filippini con quattro corgi al guinzaglio che ti attraversano la strada. Cerchi di nasconderti verso piazza Duse, in quel cupo compound da Bastioni Gran Sasso. Ma è impossibile nascondersi. Perché c’è anche l’ansia, in questa sfrenata mondanità di ritorno. “Non siamo più abituati. Parli un po’ con degli sconosciuti, ma essere social sembra un’attività faticosissima”, conferma Caterina Zanzi, regina delle influencer local milanesi, che col marchio “Conosco un posto” certifica e prescrive i luoghi di Milano (bar ristoranti ritrovi). Ma adesso preferisce star chiusa in casa. “Tenere un bicchiere e un piatto in mano, dire cose sensate a degli sconosciuti intrattenendoli, ma come si fa? Non sono più capace”, dice al Foglio. “E anche girare: improvvisamente sembra un’attività faticosissima. Dopo un’ora ti senti morta di stanchezza”. Lei tra poco esordirà in libreria con una versione cartacea del suo seguitissimo profilo Instagram, Conoscounposto, “tutto il meglio di Milano in più di 500 indirizzi”, “una guida che abbiamo dovuto riscrivere cinquanta volte, avevamo cominciato prima del Covid, tanti locali hanno chiuso, altri per fortuna ne sono nati. Poi abbiamo messo una serie di cose nuove, itinerari da fare a piedi, mercati per fare la spesa…”. Proprio sempre chiusa in casa in questi giorni? No, ha visto un po’, ha girato, “la cosa migliore è Alcova, a Baggio”, che è la novità di quest’anno, ospedalone-caserma sgarrupata e infarcita di design, ci siamo stati tutti, è decisamente il posto più cool del momento, si è vista la mostra e si è ballato tra l’erba alta e si è mangiato le polpettone giapponesi sotto rovine degne di Ruskin ma appunto a Baggio. Qualcuno si azzarda a dire che sarà addirittura sede del museo della moda,  la grande incompiuta milanese. 
 

 

Come sempre è questo il meglio di Milano: che se ci credi, le cose diventano vere. Dunque, Baggio sia. Il design, la moda, pezzi identitari di Milano. Passano delle auto brandizzate con la campagna elettorale di Sala. “Più cultura, più sicurezza, più moda”. Passano dei tram con la pubblicità: “Casanuda.it”; non è un sexy shop o un sito di incontri bensì un portale milanese specializzato per vendersi la nuda proprietà, far fruttare il mattone e godersi gli ultimi anni di vita. O puntare su dipartite altrui.  
 
A una di queste innumerevoli feste un architetto dice: questi della Design Week son sempre eventi per chi se la canta e se la suona; lo vede anche lei che la vera new entry è Burioni, se si guarda al pil del design milanese, non è più centrale, ben altri son quelli che fanno andare avanti la città, dieci volte vale quello legato alla sanità per esempio”. E perché mai il design sarebbe finito? “Perché è per vecchi; è costoso, prevede case grandi. E poi il momento d’oro del design era legato alla plastica: il metacrilato, la Kartell, le imbottiture: ma oggi che la plastica è il nemico pubblico numero uno, capisci che si è rotto qualcosa”. Uccellacci del malaugurio, non c’è tempo per loro, adesso si riapre ed è tempo di festeggiare. Anniversari. I sessant’anni del Salone (con mostra apposita in Triennale, si passa sotto le enormi gigantografie dei Cumenda che fecero l’impresa, i Busnelli, i Castelli,  si è lì, ai loro piedi). Fiesta mobile. Festeggia i 30 anni “10 corso Como” lo spazio multifunzionale di Carla Sozzani ricavato in un’ex carrozzeria, papà di tutti i “concept store”.

 

“Ma è bellissimo questo Salone a settembre, col caldo”, dice al Foglio, entusiasta. “Bisognerebbe sempre farlo a settembre. La gente sta in giro”. Ma tutta questa perfezione non porterà di nuovo l’arroganza? La maledizione della perfezione. Quello che poi fa odiare Milano al mondo? “Ma quale arroganza? Piuttosto ottimismo”, dice Sozzani, con un sorriso di tale fiducia nell’avvenire che non permette repliche.  E l’imprenditrice Tiziana Fausti che la affianca e che in piena pandemia ha rilevato il piccolo impero Sozzani, bergamasca:  “registriamo migliaia di ingressi, dobbiamo mandar via la gente all’una di notte”, dice la Fausti. E “milleduecento clienti al giorno”. Certo c’è l’online, ma “esserci è un’altra roba, la gente vuole stare insieme”. Cosa si vende di più? “Finalmente le  scarpe col tacco e non più le sneaker”, dice la nuova proprietaria. Se il Vogue Italia un tempo regno di sua sorella Franca anzi La Franca oggi è più a trazione americana, 10 corso Como è bergamasco, anche questo è cambiamento, è Milano che rinasce dalle sue ceneri. 

 

E dalla ristorazione: Corso Como è un’unica distesa di tavolini, il distretto della bresaola e del petto di pollo, quello così fortemente colpito e che faceva tremare Sala, è salvo. La fregola è la nuova bresaola. Tutti mangiano la fregola. Il cibo, il cibo si sa che è l’unica cosa seria in Italia (cit.) ma insufflarlo nel nuovo Salone è stata la trovata geniale di questa edizione, trasformare la fiera in Expo, il croque monsieur con pastrami di lingua di Cristina Bowerman accanto alle lampade dei fratelli Castiglioni o la cheesecake agli agrumi di Carlo Cracco e Marco Pedron accanto alle sedie di Magistretti: è un salone con uso di cucina. Perché dopo due anni di clausura, e di farsi il pane in casa, nessuno ha più voglia di cucinare. Invece di ammirare cucine, si comprano panini gourmet. 

 

Lo sbigliettamento è un successo: ma poi si venderanno i mobili? O solo i panini gourmet? Anche per gli hotel bisogna vedere. Secondo Marco Barbieri, segretario generale Confcommercio Milano, “Il Salone non delude le attese e rimette in moto Milano, ma la strada per tornare ai livelli di crescita pre-Covid è ancora lunga ed è necessario sostenere l’attrattività della città mantenendo la continuità degli eventi e rafforzando la sicurezza sul fronte dell’emergenza sanitaria”. L'occupazione media delle camere è stata del 45 per cento.  “E’ troppo presto per fare un consuntivo. Certamente il sentiment è positivo, ma siamo ben lontani dai tempi d’oro”, dice al Foglio Marco Malacrida, direttore Italia di Str, multinazionale che fornisce dati sull’andamento del settore alberghiero. “Mancano gli asiatici, i russi, gli americani”.


 
Vendere le sneaker e vendere Milano è un altro paio di scarpe: poco lontano da Cordusio e dal nuovo Starbucks che è un altro simbolo della nuova Milano che tirava, prima della pestilenza, incontro Luca Martinazzoli, che fa uno strano lavoro: vende Milano. E’ infatti il capo di Milano & Partners, una specie di cupola cittadina che deve rendere attrattiva la città nel mondo, un’ulteriore struttura, di corpo intermedio, di cuscinetto a sfere che fa funzionare la macchina già oliatissima di Milano, dove tutti si parlano, dove tutti sono connessi,  il contrario della Roma disarticolata e incriccata.

 

“Il successo del Salone dipende anche da una linea di comando che funziona”, dice Martinazzoli, “deriva anche da un training di 10 anni, merito anche dell’esperienza dell’Expo”, e poi “un format che si declina nelle week, nei saloni”, insomma si capisce che l’Expo per Milano è stato come il Giubileo per Roma, dove il Divino qui è la merce, e dove, ciò che più conta, a Roma quel format è andato perduto, invece qui è vivo e vegeto. “Tutti si sono messi a disposizioni, non c’è un pezzo di città che non si sia mobilitata”. Il tutto si inserisce su una base di efficienza che loro danno per scontata, “i trasporti, la spazzatura, la sicurezza”. Hai detto niente. Nel suo ufficio di via Meravigli il quarantenne Martinazzoli coordina questa specie di cabina di regia in cui figurano: il comune, la Borsa, la Camera della Moda, la Camera di commercio, gli aeroporti di Milano, e poi Pirelli, A2A. Lui prima lavorava alla Nike, e del creativo ha l’aspetto e l’abito. E un manager pubblico che vende la città dopo aver venduto le sneaker è un’altra cosa che solo a Milano.

 

Nei mesi della crisi naturalmente non sono stati con le mani in mano: si sono concentrati nello specifico a  “vendere” i singoli quartieri, attraverso anche il brand “Yes Milano”. Già, i nomi dei quartieri,  la toponomastica infinita declinata allo zoning, specialità milanese: con un programma di arte pubblica che sta ridefinendo i vari quadranti. Baggio è un po’ il protagonista. “Baggio è bella, ma nessuno di qui ci è mai stato, il nostro compito è anche far conoscere questi posti ai milanesi”, dice Martinazzoli. Ma il meglio sono gli acronimi: non solo l’ormai classico NoLo (North of Loreto) che ospita addirittura la sua biennale di quartiere, la BienNolo, che parte il primo di ottobre.  

 

“La zona in Ripamonti ribattezzata South of Prada. E poi Calvairate che è molto divertente, e NaPa, parte sud del naviglio pavese. In un momento di grande vuoto ci siamo ritrovati a dare un nome e un'immagine alla città che avessero un senso. Nominare le cose è crearle”, dice Martinazzoli. Insomma chi l’avrebbe mai detto che la nuova Milano passasse da Calvairate. Ma se il mondo non va a Milano, Milano (e Calvairate) diventa il mondo. Ma  poi: in questo lavorio indefesso di comunicazione non temete, lo ripeto, lo dico per voi, di diventare nuovamente antipatici? “Credo che l’unico modo per misurare veramente la reputazione di una città sia il desiderio che suscita nelle persone: di venirci a stare, lavorare o studiare. E in questo senso non abbiamo visto un calo significativo”. Se è così, Milano ha rivinto, perchè di desiderio, in giro, qui se ne sente davvero tanto.
 

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