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il foglio del weekend

Profumo d’avvocato

Simonetta Sciandivasci

Ritratto benevolente di una professione: dal Titta di Fellini all’Hook di Spielberg fino a Giuseppe Conte, diventato per caso capo del governo

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In “Hook” di Spielberg, quando Peter Pan lascia l’isola che non c’è, i bimbi sperduti, Trilli, Giglio Tigrato, l’Inghilterra, i pensieri felici, e cresce, lo fa nel modo più estremo: diventa avvocato, per di più in America, e dimentica tutto. Durante una serata di beneficenza, mentre capitan Uncino gli rapisce i figli, tiene un discorso in cui dice: “Ho letto di recente che adesso per gli esperimenti scientifici si usano gli avvocati al posto dei topi. Lo si fa per un paio di ragioni: la prima è che gli scienziati si affezionano molto meno agli avvocati, la seconda è che ci sono certe cose che nemmeno un topo di fogna farebbe mai”. 

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In “Hook” di Spielberg, quando Peter Pan lascia l’isola che non c’è, i bimbi sperduti, Trilli, Giglio Tigrato, l’Inghilterra, i pensieri felici, e cresce, lo fa nel modo più estremo: diventa avvocato, per di più in America, e dimentica tutto. Durante una serata di beneficenza, mentre capitan Uncino gli rapisce i figli, tiene un discorso in cui dice: “Ho letto di recente che adesso per gli esperimenti scientifici si usano gli avvocati al posto dei topi. Lo si fa per un paio di ragioni: la prima è che gli scienziati si affezionano molto meno agli avvocati, la seconda è che ci sono certe cose che nemmeno un topo di fogna farebbe mai”. 

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Quando la musa del soft power americano era l’ambizione e non la fragilità, agli avvocati spettava la parte degli invincibili, irresistibili, spregiudicati difensori del diavolo. Erano loro, nel racconto del sogno americano, a garantire la giustizia al di là del bene e del male, a insozzarsi col relativismo, a spostare il confine del lecito, a trovare il bandolo dell’orrore, a punire gli innocenti, a far assolvere gli assassini ma non i bugiardi, a scrivere doppie, triple, quadruple morali. I legal drama hanno raccontato la cancel culture prima che esistesse, l’importanza della reputazione prima che diventasse la moneta dei social network, e prima che esistessero i social network, il manicheismo prima che diventasse giustizialismo. Per capire se e come il common law abbia fatto del passato il peggior nemico di ogni individuo, se e come la giustizia sia diventata negli ultimi trent’anni un fatto di clima e non di voglia, se e come l’avvocatura sia diventata il diritto di potere, è necessario, anche se non sufficiente, guardare “Ally Mc Beal” e “Suits” che, da questa parte dell’oceano, sembrano o distopie o fantasie. L’avvocatura italiana è più paesana, naturalmente. 

   
Gli avvocati italiani non sono sexy, né vincenti. Fuori da Milano, somigliano ai filosofi, più che ai broker. Non indossano abiti sartoriali, hanno pessimo gusto o persino nessun gusto in fatto di scarpe, arredamento, font, macchine, valigetta 24 ore, dizione. Non curano i dettagli, essendo estranei al demoniaco. Lo storytelling non è riuscito a cambiarli. 

  
Tanto in città quanto in paese non sono mai stati figure cruciali, ma sempre intermediari. In paese, più di loro, conta e ha sempre contato il notaio, a sua volta subordinato al triumvirato sindaco-prete-farmacista, sebbene ci si rivolga a lui per tutto: confidenze, consulenze, vendette, ripicche, rappresaglie. Il cittadino italiano va dall’avvocato per farsi giustizia o chiedere consiglio, strenuamente convinto che sia suo diritto ricevere una o l’altra cosa senza versare un centesimo – i diritti sono gratis, no?

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L’avvocato accoglie tutti e per tutti intenta causa, non potendosi far pagare il consulto, come invece fanno gli americani, che appena un cliente si siede al loro cospetto, su una delle loro poltrone molto comode nonostante siano di alto design, che rarità, girano la clessidra, della quale si fanno pagare profumatamente ogni granello di sabbia versato. 

  
I tribunali italiani sono affollati, otturati dalle questioni di principio, sia perché siamo un popolo di permalosi irascibili affetti da manie di persecuzione e morbo del lei non sa chi sono io e coazione alla querela, sia perché gli avvocati, come i giornalisti freelance, non li paga mai nessuno, e allora loro accettano incarichi su incarichi, nella speranza di farsi un nome ma pure nell’attesa che arrivi un cliente pagante. E’ furbo ed è ingenuo, povero e ricco, mezzosangue, quattrostagioni.  

   
L’avvocato delle cause perse (adcp) esiste solamente in Italia ed è una categoria dello spirito, travalica i tribunali dove tuttavia s’è tentato di arginarlo, sanzionandolo. Nel 2016, una sentenza della Cassazione, Sesta sezione civile, affermava: “L’avvocato ha l’obbligo di non consigliare azioni inutilmente gravose e di informare il cliente sulle caratteristiche della controversia e sulle possibili soluzioni”, a proposito di un caso in cui una donna aveva citato in giudizio il proprio legale, accusandolo di non averla dissuasa dal presentare un’istanza di risarcimento che il Tribunale di Roma aveva poi dichiarato infondata. L’improvvido adcp aveva poi dovuto versare alla ex cliente mille euro poiché “esiste l’obbligo in capo all’Avvocato di dissuadere il cliente da azioni che siano manifestamente prive di fondamento”. In linguaggio tecnico si chiamano “liti temerarie” e sono la gran parte delle cause che rallentano la giustizia del nostro paese. 

   
La crisi di governo, l’ultima, non assomiglia un pochino a una lite temeraria? Dai, un pochino, e con buona pace delle ragioni di Renzi, alcune delle quali rispettabilissime, centrate, nessuna delle quali, tuttavia, sufficiente per far sopportare al paese l’idea che il governo apra una crisi nel momento in cui ne deve fronteggiarne una, peraltro mondiale. E non è incredibile che a capeggiare l’assalto, a cercare di dire a Renzi che la sua è appunto una lite temeraria, tanto temeraria da essere irresponsabile, ci sia un avvocato? Un avvocato benvestito, L’avvocato meglio vestito d’Italia, impeccabile, bello, impomatato, amato, rispettato, aitante, snello, mai un brocardo latino essendo lui avvocato del popolo e non volendo pertanto cascare nel vizio, nel peccato del latinorum. Un avvocato meridionale, naturalmente, poiché i principi del foro italiano sono nati tutti sotto Roma, come la civiltà dalla quale hanno preso la retorica sofista e la democrazia, e che tuttavia dell’avvocato italiano, dell’avvocato tout court ha niente o quasi niente. Giuseppe Conte non ha niente dell’avvocato di provincia quale era prima che capitasse per caso a Palazzo Chigi, trasportato dal vento del presente, lo zefiro dell’uno vale uno, ma ha tutto del professore di Diritto nelle nuove università, quelle private e fotogeniche, che laureano la classe dirigente delle aziende, che poi dalle aziende ascende al governo, e lo fa senza lasciar traccia, colore, suono, voce, mostrandosi funzionale e quindi momentanea, delebile. Giuseppe Conte, dicevamo all’inizio del suo mandato, è un accidente della storia, uno Chance Giardiniere finito al potere per mancanza d’alternativa e per esautorazione della fiducia, praticamente per disperazione. Dicevamo che sarebbe stato massacrato, che Salvini lo avrebbe destituito, che sarebbe stato il Romolo Augusto del Movimento 5 stelle e invece è ancora là, a capo del paese dopo inciuci, imbrogli, scissioni, divorzi, renziadi, Brexit, pandemia, mosso da una forza inerziale della quale non si capisce se sia emanazione o mezzo di diffusione, e che come che sia ha mesmerizzato tutti. Giuseppe Conte ha parlato al paese quasi ogni settimana, nei mesi della pandemia, senza dire niente, senza concionare, ripetendo sempre le stesse frasi, sempre con lo stesso tono, sofferto e tiepido, ribadendo che il governo c’era e ci sarebbe stato, giurando un amore sciapo come quello delle canzoni di Massimo Di Cataldo, l’amore confuso con l’obbedienza, con il patto, con l’attenersi alla regola. 

  
Quando parlava Conte, e tutti lo ascoltavamo perché non avevamo di meglio da fare, perché eravamo barricati in casa e ogni appuntamento fisso era una puntata nuova della grande serie tv della quale la nostra vita aveva preso la forma, tacevamo, mettevamo cuori in diretta facebook, ci lasciavamo trasportare dal suono della Puglia che gli è rimasta nell’accento, essendo la Puglia il massimo dell’esotismo in una vita di chilometro zero forzato. Eravamo rapiti da lui come lo era il pubblico che assisteva all’arringa dell’avvocato di Mariannina Terranova in “Divorzio all’italiana”, assassina dell’uomo che l’aveva disonorata: “Mentre il treno trasportava Mariannina verso la sua tragica meta, mentre la trasportava inarrestabile come inarrestabile era il fato che la spingeva, lei, piccola e povera creatura del sud, avvolta nell’antico scialle scuro, simbolo del pudore delle nostre donne, le mani congiunte a torturarsi in grembo, quel grembo da Dio condannato, sacra condanna, ai beati tormenti della maternità, mentre il treno correva, così, come un incubo incessante, dove risuonava il mistico fragore delle ruote e degli stantuffi, e alle orecchie deliranti della povera Mariannina, disonorata, disonorata, disonorata, disonorata. Ma l’onore, signori, cos’è l’onore?”. Dovendo difendere il suo governo per non farlo cadere sotto le accuse disonorevoli di non aver tutelato il paese, di non essere in grado di usufruire in modo sensato e appropriato del Recovery fund, il nuovo piano Marshall, Conte è andato a chiedere la fiducia alla Camera e al Senato con un discorso che aveva lo stesso colore della sua mascherina, un azzurrino ospedaliero che prima indicava malattia e ora indica prevenzione, così come lui era stato sintomo di decadimento e adesso, invece, sembra la sola cura possibile, l’unica guida, il solo titolato, il più amato dagli italiani che con lui si sentono a casa. 

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Giuseppe Conte non perde e non vince, e in questo è terribilmente, drammaticamente non avvocato, eppure porta a casa un bottino da vincitore: la permanenza. 

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Non porta addosso i segni del suo cliente, il popolo italiano, non s’ammala per difenderlo, eppure quello gli si affida come fosse il suo Shackleton. Non è ossessionato, come ogni avvocato, da chi è chiamato a rappresentare: non ne assume il peso, la voce, il colore. Per questo, paradossalmente, sembra così affidabile: non nella profondità della sua dedizione, ma nel distacco che mantiene, nella sua immunità. Rivendica da mesi il fatto che il suo governo sta affrontando una sfida inedita e chiunque china il capo in segno di assenso: contrariamente all’avvocato che ha il dovere di essere pronto a tutto, d’esser sempre preparato, di arrivare in tribunale sembrando pronto, certo, risoluto, nato per quell’incarico, Conte si dice l’opposto e chiede aiuto. Giorgia Meloni glielo ha urlato: lei deve soccorrere, non chiedere aiuto. 

  
Alla fine del processo Andreotti, Giulia Bongiorno si ammalò di celiachia per il forte stress. Al decimo mese di pandemia, Conte è “roseo in volto, in salute, ridente e apparentemente non interessato alla sua interna congiura familiare che non ha nessuna intenzione di riconciliare – come a ciascuno di noi a casa tocca continuamente invece fare – e che anzi liquida come ferita incancellabile”, ha scritto Concita De Gregorio sulla Repubblica, in un formidabile ritratto dell’inattaccabilità di Conte, del suo essere beige, il colore che “si porta su tutto, non stona, non lo noti”, della sua autosufficienza che è indifferenza, del suo amore felino e opportunista per il suo ruolo. Un ruolo tattico e nient’affatto tecnico, che Conte riesce ancora a interpretare col candore del Semola precipitato per caso davanti a Merlino, che gli darà compiti enormi, farà di lui un pesce, un uccellino, un sapiente e, infine, un re. Di Conte è beige anche la vita privata, l’amore per Olivia Palladino, la first lady che si vede ma non c’è, della quale non ci sono che foto rubate, della quale nessuno ha mai sentito la voce, e che non si vede che di rado, quando proprio deve accompagnare il suo compagno, e che diversamente dalle signore che l’hanno preceduta non è invisibile per adesione al ruolo ma per disinteresse al ruolo. Come Giuseppe, anche Olivia sembra dire: vivo bene sia con gli italiani che senza. 

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Di Conte, soprattutto, è beige anche il lavoro, che non trapela in niente di ciò che fa, dice, è. 

  
Paolo Conte ha fatto l’avvocato per anni, a differenza di molti altri cantautori italiani che questo mestiere hanno studiato per farlo e poi se la sono svignata, e in “Parole scritte a macchina” dà una descrizione sublime dell’avvocatura: “Memorabili frasi d’amore scritte a macchina, la nostra storia in quattro pagine, che raccontata ci può perdere, ah, formidabile, il tuo avvocato è proprio un asino, no, certe cose non si scrivono che poi i giudici ne soffrono, rido perché a parte lo stile del tuo legale sono parole tue”.  

 
Preparazione, facondia, furbizia, senso psicologico umano, ribalderia, spregiudicatezza, grigioneria, teatralità, fascino dell’attore, prepotenza, buco di culo. 

 
Quale di queste doti si riconoscesse come avvocato, chiedeva Federico Fellini in una lettera che spedì, nel gennaio del 1982, al suo caro amico Luigi Benzi, il Titta, ispiratore del Titta di “Amarcord”, il biondino che si fece venire la febbre per lo sforzo, dopo aver affondato la faccia tra le tette della tabaccaia e averla poi presa in braccio e sollevata. E gli chiedeva se si fosse mai innamorato di una cliente, se ne ricevesse di notte, se la sua visione della vita fosse condizionata da quella giuridica, se avesse un codice etico e deontologico, se “statisticamente, dei processi che hai risolto con successo, al di là della giustizia dei codici, erano tutti meritevoli del verdetto che hai ottenuto”. Voleva fare un film sugli avvocati, Federico Fellini. Ma non lo fece mai. Chissà perché. Che peccato. Avrebbe fermato l’arte di un mestiere che non sappiamo rimpiangere e che per fortuna ancora qualcuno s’ostina a preparare nelle notti insonni non per forza vegliate al lume del rancore. 
  

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