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La libertà ridotta a parola buona per ogni delirio

Marco Archetti

Vivere in un mondo libero significa vedersi ormai ridotti ad accettarne la frivolezza autolesionistica? Le zuffe sui social e quelle nella vita reale, in una mattina qualsiasi in coda in Posta 

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Ieri mattina, in coda in Posta, è accaduto questo fatto: una signora si è sentita male e, in un sommesso rantolo, si è accasciata al suolo. Sulle prime siamo rimasti tutti impantanati in una vischiosa, immobile eternità di tre secondi. Poi ci siamo dati una mossa e ci siamo fatti paralizzare da un panico più compiuto. Ne sono passati altri tre o quattro, di secondi. Forse dieci. (Io credo quindici). Quando un impiegato ha rotto il silenzio e ha invocato l’intervento di qualcuno, ha preso ufficialmente il via la seconda fase di panico: chi se la sarebbe sentita di far qualcosa?

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Ieri mattina, in coda in Posta, è accaduto questo fatto: una signora si è sentita male e, in un sommesso rantolo, si è accasciata al suolo. Sulle prime siamo rimasti tutti impantanati in una vischiosa, immobile eternità di tre secondi. Poi ci siamo dati una mossa e ci siamo fatti paralizzare da un panico più compiuto. Ne sono passati altri tre o quattro, di secondi. Forse dieci. (Io credo quindici). Quando un impiegato ha rotto il silenzio e ha invocato l’intervento di qualcuno, ha preso ufficialmente il via la seconda fase di panico: chi se la sarebbe sentita di far qualcosa?

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Tra gli accodati serpeggiavano sguardi carichi di scarico-responsabilità. Fosse stato possibile sentire l’audio dei pensieri, sarebbe andato in scena un garbato conflitto a fuoco del genere... “Faccia pure lei, è lì vicino”. “Ma no, proceda lei, è più giovane”. “Be’, a metterla sulla giovinezza, dovrei cedere l’iniziativa al signore là in fondo”. “Dice a me? Guardi, io sono talmente lontano dall’accaduto, che non so nemmeno cosa sia accaduto”. A quel punto io e un altro tizio abbiamo risollevato la signora e l’abbiamo adagiata su un sedile. Tutta la fila ha tirato un sospiro di sollievo. Immediatamente, da ognuno decollava un consiglio, un’opinione, una didascalia. “Forse dovremmo aprire una finestra,” ha detto uno. “Certo, così le viene un colpo. Ha presente che temperatura c’è fuori?”. “Ho presente sì, vengo da fuori come lei. E per fortuna, se posso aggiungere! Qua ci hanno murati in casa come appestati. E va avanti da un anno”. “Scusi, sa, ma se lei si posizionasse la mascherina in modo da coprire meglio il naso, la clausura durerebbe di meno. E’ anche colpa sua se...”. “Mia? Piuttosto, lei, la sua, l’ha lavata? Sembra poco pulita”. “Ho sentito che aumenterà la bolletta dell’acqua. Non la finiscono mai di metterci le mani nelle tasche”. “Perché, il governo di prima, che faceva?”.

 

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Intanto la signora cominciava a riaversi. “Vado a prenderle qualcosa di dolce”, le ha detto un’impiegata, subito gelata dal direttore che ha buttato lì: “E se è Covid?”. La domanda ha agitato la coda. Tutti a ipotizzare, a ventilare, a dar corpo al sospetto. Tempo due minuti, e poteva essere Covid. Al terzo minuto era Covid. Alla fine, infischiandosene della mozione generale, l’impiegata ha infilato una porticina ed è tornata con due Ferrero Rocher, si è avvicinata alla signora e glieli ha offerti. Il direttore ha guardato i Rocher e ha detto: “E se avesse il diabete? Voglio dire, che ne so che non ha il diabete? E se poi le viene qualcosa e ci denuncia?”. Il bello di questa scena è che, tra vaniloqui e assurdità, avrebbe potuto protrarsi all’infinito, riproducendo i codici delle discussioni che in queste stesse ore proliferano circa l’irruzione degli eversori armati a Capitol Hill e la presunta censura social ai danni di Trump.

 

Mi chiedo: vivere in un mondo libero (possibilità per la quale non smetterò di ringraziare Dio) significa vedersi ormai ridotti ad accettarne la frivolezza autolesionistica? Le zuffe sui social ne sono un’inquietante raffigurazione. Qualsiasi cosa uno dica, quale che sia il tatto o l’intelligenza con cui la dice, è atteso al varco da una schiera di puristi schiumanti, detentori del Canone, pronta alla lapidazione. Lapidazione che inevitabilmente accenderà zuffe minori perfino tra gli stessi puristi (di retroguardia e di avanguardia) e a decine di scazzottate collaterali. I litiganti si sbraneranno su faccende che andranno atomizzandosi sempre più, polverizzandosi su terreni sempre più scivolosi, tra cori avversi sempre più sguaiatamente capziosi, ogni sillaba spigolata con puntiglio serissimo e ridicolo. Chi avrà preso parte alla tenzone si vedrà presto trascinato a battibeccare in un luogo sconosciuto, con uno che non sa chi è, a proposito di un’inezia idiota, di cui non capirà il senso. Eppure lotterà ferocemente lo stesso, anche se la questione non sarà mai la principale ma un suo incredibile derivato, modificato dal riflesso narcisistico di un litigante capitato lì per sbaglio e intervenuto a cavillare con altri suoi simili, idioti intelligentissimi, e puerili, impermaliti e relativizzanti.

 

L’idea che la libertà di pensiero sia questa sovraeccitata caccia ai refusi di chiunque e poi questo strambo esercizio secondario di pignoleria fratricida, mi atterrisce. Davvero tutto è sempre qualcos’altro? Davvero la nostra sintassi è ormai di sole subordinate? Lo si è visto con la canizza intorno ad Alessandro Laterza, che ha dovuto scusarsi con la cricca, che da cupa sta diventando losca, dei sacri custodi della moralità social (e sì che tutto era partito da una composta, legittima questione letteraria). Lo si vede con la ridicola faccenda della censura (ma quale?) ai danni di Trump. L’ho visto in Posta. Avvinti da un reticolo sempre più arzigogolato e pretestuoso, crediamo di agire in nome della libertà ma l’abbiamo ridotta al nome di se stessa, un nome buono per ogni delirio. Mentre lei, la libertà, ecco, non si sente tanto bene.

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