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Scacco al virus

Massimo Adinolfi

Serietà e rigore, niente baldorie natalizie? Se vi dedicate al gioco e rimanete inchiodati alla scacchiera, è quasi come essere vaccinati. Storie, campioni, follie dello “sport più violento che esista”, di nuovo popolare grazie a una magnetica serie tv. Il racconto di un filosofo scacchista 

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Serietà e rigore, rigore e serietà. Cioè: niente baldorie natalizie, il virus continua a circolare e il governo vieta gli spostamenti. Restate a casa, giocate a scacchi, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, riferendo in Parlamento. No, non ha detto proprio così, ma avrebbe potuto dirlo. Perché se vi dedicate al gioco e rimanete inchiodati alla scacchiera, altro che spostamenti: è quasi come esser vaccinati.  Grazie poi a The Queen’s Gambit – la serie Netflix al primo posto tra le più viste nell’ultimo mese in 63 paesi – su Google la ricerca “how to play chess” ha conosciuto un picco eccezionale. Il New York Times scrive: la serie ha riacceso l’interesse per gli scacchi, e anche le vendite del gioco. Questa è la buona notizia: se volete imparare a giocare a scacchi, non siete i soli. La cattiva è che per imparare davvero ci vuole più tempo che per leggere questo articolo. Ma, se può esservi di incoraggiamento, un’altra buona notizia è che il sottoscritto ha imparato da piccolo quattrenne, nel 1972 – quando in tv non c’erano serie e Regine ma sceneggiati e Fate turchine, anzi lollobrigide, quelle de Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini. Il che vuol dire che si può provare a tutte le età, anche senza l’ausilio della tv. (Non aspettate la seconda stagione, insomma). 

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Serietà e rigore, rigore e serietà. Cioè: niente baldorie natalizie, il virus continua a circolare e il governo vieta gli spostamenti. Restate a casa, giocate a scacchi, ha detto il ministro della Salute, Roberto Speranza, riferendo in Parlamento. No, non ha detto proprio così, ma avrebbe potuto dirlo. Perché se vi dedicate al gioco e rimanete inchiodati alla scacchiera, altro che spostamenti: è quasi come esser vaccinati.  Grazie poi a The Queen’s Gambit – la serie Netflix al primo posto tra le più viste nell’ultimo mese in 63 paesi – su Google la ricerca “how to play chess” ha conosciuto un picco eccezionale. Il New York Times scrive: la serie ha riacceso l’interesse per gli scacchi, e anche le vendite del gioco. Questa è la buona notizia: se volete imparare a giocare a scacchi, non siete i soli. La cattiva è che per imparare davvero ci vuole più tempo che per leggere questo articolo. Ma, se può esservi di incoraggiamento, un’altra buona notizia è che il sottoscritto ha imparato da piccolo quattrenne, nel 1972 – quando in tv non c’erano serie e Regine ma sceneggiati e Fate turchine, anzi lollobrigide, quelle de Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini. Il che vuol dire che si può provare a tutte le età, anche senza l’ausilio della tv. (Non aspettate la seconda stagione, insomma). 

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Dopo torno al 1972, per faccende meno private. Ma intanto: cosa ha di così magnetico, la serie (niente spoiler in ciò che segue)? Anzitutto la protagonista, Anya Taylor-Joy: se mi è caduto l’aggettivo “magnetico” sul foglio è merito suo, dell’intensità dei suoi sguardi, della credibilità del personaggio. Infatti, per quanta attenzione io abbia posto, da scacchista a caccia di errori (che vi indicherò più sotto), alle partite e alle posizioni sulla scacchiera, bisognava che dinanzi a essa fosse seduta lei, perché la storia mi prendesse davvero. Un’altra penna vi dirà di acconciature e outfit vari, di una ricostruzione storica accurata e di una fotografia magistrale (c’è un’aria sospesa da quadro di Edward Hopper, e qualcosa del genere aleggia pure intorno ad Anya), io vi dico che nei panni della protagonista, della ragazza orfana che sale in cima al mondo tutto maschile dello scacchismo internazionale, Anya è credibilissima: determinata il giusto, cattiva il giusto, e straordinariamente vincente. E ancor più vi dico che non è mica strano che un lungo articolo sugli scacchi cominci non dal fascino del gioco (che c’è, naturalmente), ma da quello della protagonista, di Beth Harmon, la Regina. Perché sappiatelo: non imparerete mai a giocare se non avrete avversari con cui misurarvi, da battere e a cui dimostrare con tutta la ferocia possibile che siete voi i più forti, i più bravi, i più intelligenti.

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Gli scacchi sono lo sport più violento che esista: pare che la frase sia nientedimeno che di Marcel Duchamp, ma è vera anche se non fosse lui l’autore. Perché non ci sono scuse, scappatoie, sfortuna: se perdi, sei più scarso; se vinci, sei più forte. Dimostrarlo, dimostrare di essere il più forte in un gioco che è tutto cervello, autocontrollo, concentrazione e cattiveria agonistica non lascia mai le considerazioni su stima e autostima là dov’erano, prima dell’inizio del match.

  
Prendete l’attuale campione del mondo, il norvegese Magnus Carlsen, sul trono mondiale dal 2013. Suo è il punteggio Elo più alto della storia: 2889 punti, toccati il 21 aprile 2014 (il punteggio Elo è come il punteggio Atp nel tennis: misura le performance scacchistiche in base ai risultati e agli avversari incontrati. In questo momento, Carlsen è poco sotto il record: 2862 punti Elo). Sua è anche la striscia di partite senza sconfitte più lunga della storia: la bellezza di 125 partite, striscia cominciata nel 2018 e interrotta quest’anno dal giovane e talentuoso polacco Jan-Krzysztof Duda (colpa della pandemia che ha impigrito il campione del mondo? Chissà). Vi sono stati, nella storia del gioco, altri grandi campioni: Emanuel Lasker, per esempio, che fu detentore del titolo mondiale per oltre un quarto di secolo, agli inizi del ‘900, o il genio americano, Bobby Fischer, che riportò in Occidente la corona mondiale in piena Guerra fredda, o l’Orco di Baku, Garri Kasparov, dominatore incontrastato dell’ultimo scorcio di secolo (e oggi strenuo oppositore di Putin). Gli appassionati, com’è ovvio, si dividono su chi sia il più grande di tutti, come quelli del ciclismo chiamati a decidere tra Binda, Coppi o Merckx, quelli del tennis fra Laver, Borg o Federer, e quelli del calcio fra Pelé e Maradona, Messi e Ronaldo: uno di questi, o un altro dei miti dello sport. Per gli scacchi devo citarne almeno altri due: il cubano José Raul Capablanca, campione nazionale a 13 anni, che forse perse il titolo mondiale per qualche debolezza di troppo verso il gentil sesso, o chi quel titolo gli strappò, il russo, naturalizzato francese, Aleksandr Alekhine, noto purtroppo anche per il suo orrendo antisemitismo (leggetevi Teoria delle ombre, di Paolo Maurensig, che racconta il suo triste viale del tramonto).

  
Di tutti costoro si possono avere opinioni diverse, ma una cosa è certa: oggi la superiorità di Carlsen è indiscutibile. E se uno come Carlsen decide di bullizzarti sulla scacchiera, lo fa come gli piace e quando gli piace, e non c’è santo a cui votarsi. Non puoi cavartela dicendo che è stata la cattiva sorte, un imbroglio, un sortilegio, e neppure puoi dare la colpa a un compagno di gioco. Lui ha vinto e tu hai perso. E più non dimandare.

  

E alla fine, il Gambetto di donna. Dall’orfanotrofio alla gloria scacchistica, la rivalsa di Beth Harmon. E’ finzione ma riecheggia la storia di Bobby Fischer, l’americano che mise in scacco l’Urss

 
Beth è così (questa volta seguono spoiler): schiaccia tutti gli avversari che ha davanti, uno dopo l’altro, infliggendo umiliazioni cocenti e relegando i malcapitati nel ruolo di comprimari, mentre completa la sua ascesa fulminante ai vertici dello scacchismo mondiale (e intanto sistema, più o meno, qualche pezzo storto della sua vita): comincia con il signor Shaibel, l’amato custode, l’uomo silenzioso che le insegna a giocare nell’orfanotrofio e che, sempre in silenzio, seguirà, da devoto fan della campionessa, tutti i suoi exploits, collezionando i ritagli di giornale della bambina prodigio; prosegue con i primi avversari di circolo, che finiscono (ovvio, no?) con l’innamorarsi di lei, e si mette in tasca anche il campione americano in carica, Benny Watts; infine, sale sul tetto del mondo battendo il campione sovietico Vassily Borgov. (Chicca: per tutta la serie Beth Harmon apre, da Bianco, con il pedone di Re; solo nell’ultima partita apre col pedone di Donna e gioca l’apertura che dà nome alla serie, e al libro di Walter Tevis da cui è tratta: il Gambetto di donna. Su “agadmator’s Chess Channel”, di YouTube, la partita commentata ha raccolto oltre 2.200.000 visualizzazioni).

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Gli autori esagerano, perché si vince e si perde e non si patta mai, nei vari episodi. Negli anni Ottanta Kasparov aveva inchiodato sulla scacchiera per un tempo interminabile il campione del mondo in carica, Anatoly Karpov, pattando la bellezza di quaranta partite

  
Gli autori esagerano un po’, perché in tutta la serie non c’è una sola partita che finisca in parità, mentre le patte, nel gioco professionistico, sono la regola, non l’eccezione. Ma sullo schermo funzionano di più vittorie e sconfitte, e così Beth le vince tutte, una dopo l’altra, salvo un paio di partite perse che le servono da lezione. A beneficio dello spettacolo, sulla scacchiera chi perde fa anche cadere il Re: è una cosa che a volte insegnano ai bambini, e che, nella serie, credo serva per mostrare anche a chi ignora le regole del gioco che la partita è finita, ma posso assicurare che nemmeno tra i vecchi giocatori di uno scalcagnato dopolavoro ferroviario succede che qualcuno abbandoni con un teatrale colpo al Re. Si mastica amaro, si ferma l’orologio, si stringe la mano dell’avversario, spesso con lo sguardo basso, ma non si butta giù il Re. (Parentesi. Il dopolavoro non me lo sono inventato: come tutti gli sport minori, e come succede pure nella serie, si comincia con i pezzi di plastica e si gioca spesso e volentieri, tra amici, nei bar o nelle palestre, o a fianco di giocatori di dama e altri giochi da tavolo. Però, se sali di livello puoi riuscire anche tu a vedere le stelle).

   
Beth vince, comunque. Ragazzina in un mondo di adulti, donna in un mondo di uomini, sola e senza un’organizzazione alle spalle contro la macchina della federazione sovietica, che in quegli anni dominava il mondo. Se vuoi mostrare come con le proprie, esclusive forze ci si possa riscattare da tutti e contro tutti, tirandosi via da un orfanotrofio e da una situazione sentimentale complicata (anche nella famiglia adottiva), scegliere gli scacchi come terreno di gioco, di competizione, di rivalsa, non è affatto un’idea peregrina.

  
Di scene così, come quelle raccontate nel film, tipo Davide contro Golia, gli scacchisti ne hanno in mente diverse. La più famosa. 18 marzo 2004, Reykjavik, torneo rapid (tempo di riflessione: 25 minuti + 5 secondi di incremento per mossa), Garri Kasparov ha quasi 41 anni, non è più il campione del mondo in carica ma è ancora il giocatore più forte al mondo, con l’Elo più alto. Primo turno del torneo. L’avversario è un ragazzino di tredici anni, con un Elo inferiore di circa 400 punti. Gira in rete un filmato: luci basse, giocatori seduti in silenzio, e questo ragazzino biondo che si aggira pensieroso tra i tavoli, poi si siede e sfoglia annoiato un dépliant mentre aspetta dinanzi alla sedia vuota del campione, con una Pepsi al suo fianco. Kasparov tarda ad arrivare. L’orologio è già in moto. Le altre partite sono già iniziate. Finalmente il campione entra in sala e a passo svelto raggiunge la scacchiera. Stringe la mano al ragazzino con un po’ di sufficienza, toglie la giacca, si siede, sistema i pezzi, si stropiccia gli occhi, finalmente muove. La partita dura 52 mosse, nel finale il ragazzino ha un pedone in più, ma il vantaggio non è sufficiente per la vittoria. E’ patta, e il giorno dopo Kasparov vincerà la partita di rivincita, ma quella sera lo ha fatto tremare un moccioso di tredici anni, che legge ancora Topolino in camera d’albergo (oltre a montagne di libri di scacchi, s’intende). 

  

I giocatori, nella serie tv, abbandonano con un colpo teatrale. Nella realtà, si mastica amaro, si ferma l’orologio, si stringe la mano dell’avversario, spesso con lo sguardo basso, ma non si butta giù il Re. Nel ricordo, tante scene tipo Davide contro Golia, come a Reykjavik nel 2004

 
Si parva licet, come vi sembra quest’altra storia? Affascinante ufficiale monarchico del Regio esercito, dopo la guerra reintegrato sotto le armi, già pilota d’aeroplano, già maestro di sci, incontra in un circolo ricreativo giovane laureando in Ingegneria un po’ sfaccendato, tiratardi, forte giocatore di poker oltre che di scacchi, e lo prega, tra una partita e l’altra, di dare lezioni di matematica alla figlia. Finisce che il laureando sposa la ragazza, per amore rinuncia al poker ma non certo agli scacchi. A cui invece rinuncia il suocero, per non subire sistematicamente la mortificazione della sconfitta con l’uomo che ha impalmato la figlia. (E vissero tutti felici e contenti: trattasi di mio nonno, e di mio padre. E di mia madre un po’ vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro).

  
Gli autori esagerano, dicevo prima, perché si vince e si perde e non si patta mai, nei vari episodi. Come se le patte non funzionassero, ai fini dello spettacolo. Come se quello che Gianni Brera diceva del calcio – la partita migliore finisce zero a zero – non potesse valere anche per gli scacchi. Sentite questa, invece. 2018: il titolo mondiale è in palio. Di fronte ci sono Fabiano Caruana, foruncoloso italo-americano che a noi italiani ha già dato il grande dolore di passare sotto bandiera Usa, qualche anno fa, e il campione in carica: lo conosciamo già, è Magnus Carlsen (a proposito: è lui il ragazzino semi-sconosciuto che patta con Kasparov. Il quale, senza nulla sapere di mio nonno, l’anno dopo si ritira pure lui dalle competizioni e si mette ad allenare per qualche tempo il ragazzino). Il match è sulla lunghezza delle 12 partite: questa storia della lunghezza non è un particolare secondario. Negli anni Ottanta Kasparov aveva inchiodato sulla scacchiera per un tempo interminabile il campione del mondo in carica, Anatoly Karpov, pattando la bellezza di 40 partite. Era dovuta intervenire la Federazione internazionale, con un clamoroso strappo alle regole dell’incontro, per sospendere il match prima che Karpov, che pure era in vantaggio, crollasse per stanchezza, per dimagrimento (aveva perso 10 kg.), per esaurimento nervoso, per senso di frustrazione e impotenza. L’anno dopo fu imposto un tetto al numero di partite da disputare: vinse Kasparov e cominciò il suo lungo regno.

  
Ma torniamo al 2018: le partite da giocare sono solo dodici, dicevamo, e i due avversari le pattano tutte e dodici! Per gli aficionados desiderosi di vedere scorrere il sangue sulla scacchiera, è un po’ una delusione, ma immaginate la tensione con cui Caruana si accostò alla prima delle partite di spareggio: non credete che per uno sceneggiatore televisivo sarebbe stata una scena perfetta, accompagnata magari dalla musica di Ennio Morricone e da primi piani lunghissimi, alla Sergio Leone? (Lo sapete, no? Il Maestro Morricone giocava a scacchi, e il Buono, il Brutto, il Cattivo cosa sono, se non implacabili giocatori di scacchi?). E se poi, dopo aver fatto salire la febbre giorno dopo giorno, partita dopo partita, primo piano dopo primo piano, nel match di spareggio disputato su una più corta distanza (partite di mezz’ora, all’incirca, anziché snervanti partite di tre, quattro ore) uno dei due (Caruana) frana all’improvviso, di schianto, senza più opporre resistenza, mentre l’altro lo maciulla impassibile, mossa dopo mossa: non dite che Netflix ci potrebbe tirare su un’altra serie?

  

    

 

Gli autori esagerano, ma siccome hanno preso come consulenti Garri Kasparov (ancora lui) e Bruce Pandolfini (questo non lo conoscete ancora: è stato per tre anni allenatore di Caruana, e prima ancora ha avuto tra i suoi allievi il più folle e asociale di tutti, Bobby Fischer), si vedono sulla scacchiera solo posizioni tratte da partite famose, con combinazioni spettacolari e altre raffinatezze per intenditori. Con una pecca, però: sono partite giocate sempre e solo da uomini.

   

Devozione, ordine e controllo. L’accuratezza delle partite  nella “Regina degli scacchi” e gli errori in un’istantanea di Togliatti alla scacchiera. I Night Chess Show in rete. Il match del secolo che nel ’72 fece diventare per un po’ gli scacchi uno sport di massa. Oggi tra l’uomo e la macchina non c’è più partita

    

Eppure oggi, a differenza che negli anni in cui è ambientata la storia, c’è un repertorio di partite femminili a cui attingere, anche se tra i primi 100 giocatori al mondo c’è attualmente solo una donna, Hou Yifan (che peraltro ha diradato le sue apparizioni). Ma si potevano usare le partite della più grande di tutti i tempi, Judit Polgar, che fra le altre cose, tra scacchisti che rifiutavano di stringerle la mano per l’onta di aver perso contro una donna, si tolse pure lo sfizio di diventare, all’età di 15 anni, 4 mesi e 28 giorni, il più giovane grande maestro della storia, sfilando il record proprio a quel misogino di Bobby Fischer (il record attuale è invece del russo Sergey Karjakin, che ha abbassato l’asticella a 12 anni e sette mesi. La cattiva notizia è che per riuscirci ha cominciato a studiare scacchi per sei ore al giorno fin dall’età di 7 anni; la buona notizia è che non dovete battere necessariamente il record di Karjakin).

   

   

E gli errori dove sono, allora, se le partite usate per la serie sono state suggerite da Kasparov e Pandolfini? Sulla scacchiera errori non ce ne sono. Non accade quindi come successe con il Migliore (dico Togliatti, non certo Carlsen). Il segretario del Pci conosceva il gioco: assolutamente doveroso, per un leader del comunismo internazionale vissuto a Mosca negli anni Trenta. Beh, c’è una foto famosa, scattata nel 1963 (sta pure sulla copertina dell’ultimo libro di Emanuele Macaluso), che lo vede seduto al tavolo da gioco, assorto in profonde meditazioni. Il guaio è che sulla scacchiera qualcosa proprio non va: non si giustifica la posizione di una torre bianca, e soprattutto quella del re nero. Nessun giocatore di scacchi si sarebbe mai messo in posa dinanzi a una posizione simile, soprattutto se l’obiettivo è restituire la caratura intellettuale del personaggio, versato nella gramsciana guerra di posizione: se qualcosa quella foto dimostra, è, se mai, che Togliatti a scacchi giocava maluccio. (La cattiva notizia è che una certa sciatteria nel rappresentare il gioco è assai frequente, The Queen’s Gambit fa eccezione; la buona notizia è che, con poco impegno, raggiungerete almeno il livello di gioco del compagno Ercoli).

  

La più grande di tutti i tempi, Judit Polgar, fra le altre cose, tra scacchisti che rifiutavano di stringerle la mano per l’onta di aver perso contro una donna, si tolse  lo sfizio di diventare, all’età di 15 anni, 4 mesi e 28 giorni, il più giovane grande maestro della storia, sfilando il record a quel misogino di Bobby Fischer 

  
Vedete dunque chi è un appassionato di scacchi. Quale acribia mette nella sua passione, tutta ordine e controllo. Quali livelli monomaniacali può raggiungere, quale ossessione e quale devozione. E dunque, guardatela, Beth Harmon, mentre muove i pezzi. Pandolfini, a cui il regista regala un cameo nel sesto episodio, ha raccontato a quali sedute siano stati sottoposti gli attori, e in primis la protagonista, perché mostrassero, giocando, “a certain flow and fluency”, e in generale è così: il modo in cui muovono e il modo in cui trascrivono le mosse funziona, è sciolto e naturale. Sono verosimili, soprattutto, gli ambienti, l’etichetta da torneo, le posture, la concentrazione. Ma quando eseguono una presa, quando un pezzo ne cattura un altro, lo fanno invece in modo impacciato, con colpevole malagrazia. Su questo, dovevano lavorarci un po’ di più.

  
Poi c’è che a volte gli avversari commentano durante la partita, e propongono patta una mossa prima di abbandonare, il che proprio non può accadere in un torneo, oppure si dimenticano di trascrivere le mosse sui formulari, com’è invece obbligatorio. E c’è una partita sospesa, e sembra che sia uno solo dei giocatori a chiedere la sospensione quando invece non era una facoltà, ma una prescrizione regolamentare, alla quarantesima mossa (quando non c’erano ancora i computer). E infine il bicchiere. Beth siede dinanzi a Benny, in una partita blitz, una di quelle partite veloci in cui le mosse devono essere eseguite rapidissimamente, anche in meno di un secondo: come può stare un bicchiere a fianco dell’orologio, a rischio di urtarlo? Qualunque giocatore di scacchi prova a pelle un immediato fastidio, come vedere un orologio da polso sul set di Ben Hur. 

  
Cosa che è capitata, peraltro, ma quello è forse il più famoso di tutti gli errori nella storia del cinema, mentre queste sono minuzie, dettagli veniali: si capisce. (Sorvolo, a proposito di abitudini cinematografiche, sul doppiaggio in italiano). Tutto il mondo degli scacchi in realtà è arcicontento per l’improvvisa popolarità. Si organizzano in rete fantastici Night Chess Show, in cui la serie è studiata fotogramma dopo fotogramma. Sui siti principali – chess.com, chess24.com e in Italia scacchierando.it  – gli utenti si moltiplicano.  La Federazione italiana lancia il suo canale streaming mentre sulla piattaforma lichess.org i membri superano le centinaia di migliaia. Campioni come l’americano Hikaru Nakamura o l’olandese Anish Giri sono seguitissimi su Twitch, dove giocano e spiegano in allegria, mentre Carlsen finisce sotto contratto per la compagnia di trading online Skilling (in Italia, è capitato che lo scacchista più rappresentativo, Daniele Vocaturo, girasse uno sport per la Lamborghini, lo scorso anno: gli scacchi come art of anticipation).

  
Per ricordarsi di una febbre simile, bisogna tornare indietro, all’anno che dicevamo all’inizio, il 1972, quando si disputò il match mondiale fra Bobby Fischer e Boris Spassky. E’ la vicenda a cui peraltro guarda The Queen’s Gambit: l’americano che mette in scacco l’Urss (dove il gioco era materia scolastica), che impara il russo per leggere le riviste moscovite, su cui studiano i suoi avversari, che accusa i sovietici di fare squadra contro di lui, che infligge punteggi tennistici agli avversari nella corsa al mondiale. E tutto mentre imperversa la Guerra fredda, e il “match del secolo” diviene un formidabile strumento di propaganda. Vinse Fischer, nonostante una partita persa a forfait e le bizze da prima donna (si scomodò Henry Kissinger, per convincerlo a giocare). Vinse, Fischer, e si ritirò, scomparendo dai radar per anni, salvo riapparire – imbolsito e un po’ sciroccato – per un match di rivincita non ufficiale con Spassky giocato nella Belgrado di Milosevic, in violazione dell’embargo americano contro la Serbia. Seguirono: sputo sul provvedimento notificatogli dalle autorità degli States, nuova eclisse, poi improvviso arresto e detenzione in Giappone per violazione delle leggi sull’immigrazione, quindi concessione di passaporto islandese per evitare l’estradizione in America, e infine, pochi anni dopo, la morte. Fischer non aveva più giocato, dai tempi della sfida mondiale. Ma il clamore di quell’epico scontro fu tale, che in Italia passò anche in diretta tv, in stile Nazionale di calcio: “Dallo Sport Stadion di Reykjavik, Nando Martellini vi trasmette la telecronaca dell’undicesima partita tra il campione del mondo in carica, il sovietico Boris Spassky, e lo sfidante ufficiale, l’americano Bobby Fischer. Spassky apre col pedone di Re, Fischer risponde con la variante della partita Siciliana. Entra in azione il Cavallo bianco, Fischer si chiude in difesa […]. Fischer attacca col Pedone di Torre, lasciando avanzata la Regina, è un’imprudenza grave […]. Splendido! Fischer manda un Cavallo a spezzare il centrocampo Bianco, è scopertissimo!”. Vinse Fischer, e per qualche tempo gli scacchi pensarono di diventare uno sport di massa.

  
Non accadde, chissà che non accada oggi. La vera differenza rispetto a quei tempi sta su un altro piano, è tecnologica. E’ la Rete, il computer, l’app sullo smartphone che moltiplica la possibilità di giocare, e naturalmente i motori scacchistici che hanno sopravanzato l’uomo, e che, da quando il computer Deep Blue dell’Ibm ha battuto Kasparov, nel 1997, giocano ormai più volentieri fra di loro, in campionati in cui scendono in campo i software, non gli esseri umani. C’è allora il rischio che gli scacchi diventino quel tal gioco in cui trentadue pezzi si muovono sulla scacchiera, e alla fine vince sempre Google (meglio: Alphazero, l’algoritmo sviluppato da Google Deepmind)? In un certo senso sì: fra l’uomo e la macchina non c’è più partita (fra macchina e macchina invece sì, tanto che l’una vince e l’altra perde: c’è ancora margine per migliorarsi pure per le macchine). Ma in un altro senso no, se è vero che gli scacchi sono scienza, arte e sport insieme, come diceva il compagno Karpov, l’uomo che restituì l’onore all’Unione sovietica, riportando in patria il titolo mondiale dopo il ciclone Fischer. Al gioco appartengono effetti di senso che sono estranei ai computer. E’ come in quello strano Gedanken-Experiment proposto dal filosofo Ludwig Wittgenstein in un paragrafo delle sue Ricerche filosofiche: poniamo che su una certa isola gruppi di uomini eseguano una strana danza rituale, e che un antropologo scopra dopo anni di studio una notazione che consenta di trascrivere i movimenti eseguiti secondo certe regole precise. Meraviglia delle meraviglie: quel che ne viene fuori può essere rappresentato come una partita a scacchi. Direste allora che quegli uomini giocano? La risposta di Wittgenstein può suonare deludente, ma è la più precisa: dipende. Dipende dal significato che associate alla pratica del gioco, che non è detto sia la stessa per voi e per gli isolani (e che di sicuro non è lo stesso per gli uomini e i computer). Il gioco è infatti un oggetto sociale, costruito intorno a determinate regole, ma non gli appartiene solo una sintassi (quella che la macchina domina perfettamente), bensì anche una semantica e una pragmatica, che invece non hanno presa sul computer, ma che sviluppano un ampio volume di senso ben al di là della stretta “meccanica” del gioco. Volume che cresce e si prolunga, per esempio, nella vita dei giocatori – per questo gli scacchi sono anche uno sport, e richiedono allenamento, resistenza psicologica, attitudine allo sforzo, spirito agonistico, forma fisica, e così via –. Volume che si arricchisce di precise risonanze estetiche – per questo Duchamp (ma non solo lui) poteva dire che gli scacchi sono un’arte, che i pezzi sono come i blocchi di un alfabeto con cui dare forma a una bellezza astratta, cerebrale, e infine che mentre gli artisti non sono tutti scacchisti, gli scacchisti sono tutti artisti (e forse per questo, non volendo rimanere nel dubbio, smise per lunghi anni di dedicarsi alla pittura e alle arti visive, preferendo la carriera dello scacchista professionista, con tanto di partecipazione alle Olimpiadi).

   

Da quando il computer Deep Blue dell’Ibm ha battuto Kasparov, nel 1997, i motori scacchistici giocano ormai più volentieri fra di loro, in campionati in cui scendono in campo i software, non gli esseri umani. La novella sugli scacchi di Stefan Zweig, primo consiglio per gli acquisti, se volete farvi una piccola biblioteca

 
C’è una celebre novella sugli scacchi, di Stefan Zweig, che converrà infine raccontare: è il primo consiglio per gli acquisti, se volete cominciare col farvi una piccola biblioteca. Su una nave da crociera viaggia il campione del mondo di scacchi, coinvolto in qualche partita di esibizione. Finisce col giocare con un perfetto sconosciuto, che però rivela un’abilità straordinaria (non vi dico come finisce la sfida). Gli altri viaggiatori gli domandano come e dove abbia imparato, e lui racconta che, al tempo della Grande guerra, durante un periodo di prigionia, privato assolutamente di ogni cosa, era riuscito miracolosamente a procurarsi un unico libro, che per colmo di sfortuna non recava però che delle strane formule. Aveva così cominciato a studiarle, ad aggrapparsi a quell’unico esercizio per resistere alla tortura del vuoto, del nulla, della noia, riuscendo a rappresentarsi mentalmente quel che le formule dovevano significare: si trattava di un libro di scacchi, finito nelle mani di un uomo che non aveva mai giocato e che dunque apprendeva e si appassionava al gioco a partire non dalla scacchiera ma dalla sua notazione algebrica (quella dei formulari che ogni tanto i personaggi di The Queen’s Gambit dimenticano di compilare). Immaginate l’entusiasmo, l’emozione incontrollabile, l’autentica gioia quando, finita la guerra, poté vedere per la prima volta i pezzi, che lo avevano preservato dalla follia della solitudine, muoversi davvero su una scacchiera, e il suo disumano esercizio intellettuale riempirsi così finalmente di forme e di figure. Una sconosciuta bellezza, un’altra dimensione, un nuovo volume di senso. Non diceva Paul Klee che l’arte fa vedere l’invisibile? Eccolo qua, l’invisibile. Qualcosa del genere succede anche a Beth Harmon, negli anni dell’orfanotrofio, quando gioca le sue partite mentalmente, proiettandone i pezzi sul soffitto. Qualcosa del genere succede a uno scacchista, quando coglie una combinazione sulla scacchiera e rimane rapito dalla sua bellezza. Qualcosa del genere, infine, tocca pure a voi, se volete provarci: how to play chess. Buona fortuna.

 
(Per cominciare: J. R. Capablanca, Il primo libro degli scacchi, Mursia, e, subito dopo, dello stesso autore, Fondamenti degli scacchi, Mursia. Per fare un passo avanti J. Nunn, Capire gli scacchi mossa dopo mossa, edito da Caissa. Il più bel libro che abbia mai letto è M. Tal – D. Bjelica, Rapporto da Bagujo, Francisci editore, che – attenzione! – non trovate su Amazon. Il libro più importante di un italiano credo sia stato G. Porreca, Manuale delle aperture, Mursia: lo segnalo in omaggio alla storia scacchistica del nostro paese. In assoluto, lo sono forse i cinque volumi di G. Kasparov, I miei grandi predecessori, Eviscere, per giocatori più avanzati, mentre tra i più venduti al mondo c’è  B. Fischer, 60 partite da ricordare, sempre da Mursia. Sulla storia del gioco, M. Leoncini, La grande storia degli scacchi, appena uscito da Due Torri. Infine, non è un libro di scacchi ma una riflessione sull’impatto del computer: G. Kasparov, Deep Thinking, Fandango, uscito di recente. Se poi siete a Baronissi, provincia di Salerno, in zona rossa, il circolo di scacchi c’è e si chiama, pensa un po’: “Alfiere cattivo”, e bisogna che qualcuno vi spieghi cosa vuol dire).
 

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