Friday very black
Ciò che la pandemia ha fatto al lavoro e al sesso, lo sta facendo allo shopping. Nuovi termometri delle ambizioni
Cose buone e giuste dalle quali la drammatica congiuntura ci dispensa, tre: la cena della vigilia di Natale in quarantaquattro, non tutti propriamente vivi, gli accampamenti davanti ai negozi nella notte del Black Friday e i se questo è un uomo del giorno dopo, ovverosia gli editoriali e/o reportage dolenti che quegli accampamenti raccontano e discutono. Nel mondo di prima, quando i virus erano innocue influenze stagionali e non flagelli socio-economici, il venerdì nero dei prezzi, il Natale dei saldi, era un’americanata che ci divideva in pauperisti e comunisti col Rolex, dolciniani e turbocapitalisti, e svariate altre lussuose e spensierate fazioni. Ricordate quanto ci sembrava importante discutere del perché gli esseri umani fossero disposti a passare una notte in piedi, al gelo, per non perdere gli sconti dell’Apple Store, del perché avessimo permesso che la felicità coincidesse con il possesso e la soddisfazione con l’acquisto (e non l’acquisto normale, ma quello più furbo, più conveniente: l’affare di stagione)? Tutto finito.
Quest’anno il punto è molto meno filosofico, non sta tra Ayn Rand e Simone Weil, tra Adam Smith e Serge Latouche, tra Bosco Verticale e Celio. Quest’anno i maxi ricchi sono ancora più ricchi, e quindi del Black Friday non sanno cosa farsene, e tutto il resto del mondo o s’è impoverito o teme d’impoverirsi, o ha perso il lavoro o potrebbe perderlo, o s’è ammalato o teme d’ammalarsi. La seconda ondata ha infelicitato tutti, abbassato molte saracinesche, ingrigito gli arcobaleni. Prima di parlare dello shopping, dobbiamo domandarci se ci sia voglia di farlo, che è come domandarci se abbiamo voglia di nutrirci: quando mai lo abbiamo fatto, noi che sin dalle scuole elementari impariamo a conoscere Oscar Wilde da aforismi, talvolta apocrifi, su quanto sia nobile spendere; noi che al fast fashion e al low cost abbiamo attribuito il merito di una delle più grandi emancipazioni economiche della storia. E invece. Quest’anno le file sono assembramenti, la cosa meno legale che c’è, e quindi la lotta per gli Apple AirPods scontati del 35 per cento la faremo da casa, come tutto il resto, pensiamo. Ammesso che avremo soldi da spendere e la voglia di farlo, pensiamo meglio.
La pandemic fatigue s’irradia, arriva dritta al cuore e da lì dilaga, ingrigendoci e immobilizzandoci. Se nel primo lockdown ci incontravamo su Zoom con una certa allegria e, adrenalinici, compravamo online pesi, tappeti, tapis roulant, libri, cene, tute, felpe, mensole, trapani, preservativi, scatolame, adesso è diverso. I risparmi languono e l’abitudine alla fine del mondo si è più o meno consolidata. Non ci sono dati, per ora, e questa depressione è soltanto percepita, ma quello che compreremo e non compreremo oggi molto dirà di come stiamo – piaccia o no il capitalismo è ancora reggente, l’uomo è ancora ciò che compra. Negli Stati Uniti, da marzo a ottobre, le vendite di elettrodomestici e accessori più o meno frugali, e quindi moralmente contundenti, sono aumentate del 41 per cento (friggitrici impennate dell’83 per cento – stabili frullatori ed estrattori, perché quando tutto fa schifo mica ti metti a bere composti vitaminici: friggi, almeno friggi). In America quasi tutti hanno imparato a cucinare, e pure da questa parte dell’oceano.
L’occidente ha imparato a fare il pane in casa. L’occidente ha imparato a fare tutto in casa, dotandosi degli strumenti necessari. E adesso che gli appartamenti sono pieni di tutto l’utile che serve e l’inutile è stato bandito, tanto dal senso di colpa (pregresso), quanto dall’impoverimento, reale o percepito che sia, concreto o paventato (chi ti assicura che domani non perdi il lavoro, non arriva un meteorite, una quarta ondata, un virus nuovo e più stronzo? Nessuno, quindi meglio spendere il meno possibile, raggranellare risparmi), adesso che ci sarebbe da comprare qualche sfizio, che cosa faremo? Non servono nemmeno i vestiti per Natale e Capodanno, ché vigilia e pranzo e cenone li passeremo a casa, tra consanguinei corregionali, quindi basterà indossare una tuta, o il vestito dell’anno scorso, tanto nonna non ci fa caso, zia è su Skype, mamma è messa come te, la cugina cervello in fuga sta su un altro fuso, da lei è notte. Quello che serviva per le nuove vite monacali lo abbiamo già comprato nel primo lockdown, inclusi i mobili, che erano la sola cosa che ancora preferivamo comprare in presenza.
Su Wayfair, portale online di arredamento, s’è registrato un incremento del 75 per cento degli acquisti, da aprile a settembre. Tutto questo, naturalmente, è destinato a durare. Tutto questo è destinato a cambiare il volto dei negozi, la funzione che ne fa l’uso, e quindi anche l’assetto delle città, il modo in cui le pensiamo, i bisogni e le nostre necessità. Quello che la pandemia ha fatto al lavoro, al sesso e alle relazioni, lo ha fatto anche allo shopping, che delle tre cose, nel mondo di prima, è stato sia il mezzo che lo scopo: ha dimostrato che c’è un altro modo di farlo, meno umano ma più comodo. Chi tornerà ad affollare un negozio? Chi tornerà al ristorante? Tutti, certo, ma assai meno di prima, in modi assai diversi. Quanti negozianti vorranno tornare a pagare affitti astronomici ora che hanno scoperto l’e-commerce (quelli che lo hanno scoperto, e che hanno potuto investirci cifre che non sono irrisorie per rendersi operativi online)? I grandi magazzini, le grandi catene nei cui punti vendita si può comprare più o meno di tutto, mantenendo la distanza sociale senza litigare e, soprattutto, esponendosi una volta e basta al rischio di incrociare altri esseri umani, sono i soli che, finora, non hanno sofferto.
Il commercio al dettaglio, invece, ha preso palate suppergiù quanto lo spettacolo. I negozi non erano più luogo di incontro, ma se in “Gossip Girl” Blair e Serena si davano appuntamento da Paul Smith, nella realtà venuta dopo quel telefilm, quello sul solletico che la crisi del 2007 fece all’Upper East Side e ai suoi figlioli, Zara e H&M erano diventati agorà coperte, dove chiacchierando si comprava, riuscendo nel pensiero a fingersi benestanti abbastanza da poter sempre tornare a casa con un accessorio in più, adesso è complicato immaginare che la medesima transizione avverrà da Zara al Carrefour. I centri commerciali che volto avranno? Tra marzo e aprile, il Centergross, la cittadella del commercio all’ingrosso di Bologna (un distretto di un milione di metri quadri, 400 dei quali adibiti ad area espositiva) aveva ufficializzato che il contraccolpo del Covid sul fast fashion stava cominciando ad assumere proporzioni gigantesche.
Era uno scenario inimmaginabile: la possibile fine del fast fashion, paventata e preannunciata negli ultimi anni, non solo aveva una scadenza molto più in là, ma nasceva da ragioni assai diverse e di tipo etico (lo sfruttamento della manodopera, l’impiego di materiali altamente inquinanti – “colpe” attribuite anche all’alta moda: due settimane fa il Financial Times scriveva che una moda eco-compatibile è un bellissimo ideale ma di fatto è quasi impossibile da perseguire). Dice il New York Times che lo shopping è cambiato per sempre e che molti negozi stanno già adattandosi, e mentre i marchi più ricchi propongono tour virtuali ai clienti, mettendo loro a disposizione un personal shopper che fa poi anche da fattorino – lo fanno già anche alcuni negozi di via Frattina, a Roma – altri, semplicemente, abbassano le saracinesche. A Manhattan, gli affitti sono diminuiti del 13 per cento e, nonostante questo, il 31 per cento dei contratti di locazione di attività commerciali non è stato rinnovato. Lo scenario parallelo, però, racconta una compensazione: se tutto o quasi tutti passa online, se i negozi si rimpiccioliscono, diventano uffici o piccole camere espositive dove allestire set per ospitare le riprese di prodotti, si crea una domanda di magazzini, poiché la merce deve pur stare da qualche parte.
Una parte di ciò che il mercato immobiliare perde in affitti di locali commerciali, quindi, lo riguadagna in affitti di magazzini. Unitamente, aumenta la richiesta di furgoni per il trasporto delle merci e di parcheggi coperti per i mezzi di trasporto. In Cina, qualcosa di molto simile al Black Friday c’è stato l’11 novembre scorso, in occasione del Single Day (1/11: un trionfo di numeri uno che, dieci anni fa, fece pensare a qualcuno che il giorno perfetto per festeggiare le persone senza partner non potesse che essere questo). Non è andata per niente male: le vendite sono state buone perché la percezione delle persone è che la battaglia contro il Covid sia quasi stata vinta, e la recrudescenza è stata contenuta. L’ottimismo delle persone si è misurato sulla fiducia con cui hanno speso ma più che di ottimismo, gli esperti parlano di “shopping di vendetta”: anziché intimorirsi, i consumatori hanno reagito all’incertezza del domani con sfacciato senso di sfida. Naturalmente, sono stati favoriti da una congiuntura più rosea.
Dello shopping, questo non è cambiato da nessuna parte: è un termometro dell’umore e della tenuta delle ambizioni delle persone. Nell’acciaccatissimo occidente, la serie tv made in Netflix trasmessa per la prima volta quest’anno, a cavallo tra prima e seconda ondata, Emily in Paris, sembra uscita dagli anni Novanta, racconta di un’americana che si trasferisce in Francia per lavoro, e si gode i soldi, i vestiti, il buon cibo, la carriera, pur subendo l’antipatia dei francesi (che naturalmente si sono adontati per la riduzione a stereotipo culturale eccetera eccetera). La costumista della serie è la stessa di Sex and The City e alcuni capi indossati dalla protagonista sono diventati, come avremmo detto negli anni Novanta, richiestissimi cult per ragazzine (anagrafiche e non), che naturalmente li hanno comprati online. E vai a capire se lo hanno fatto per vendetta, soft power, irriverenza, senso patriottico, lo stesso che da noi ci ha riportati in libreria, non solo di catena ma pure indipendente, non solo di persona ma pure online (le librerie indipendenti italiane hanno costruito una rete, Bookdealer, una specie di Amazon indie).
L’anno scorso, di questi tempi, in quelle librerie entravamo anche per comprare esperienze: regalavamo pacchetti di viaggi, massaggi, trattamenti benessere, lezioni di volo, sortite in deltaplano, abbonamenti a stagioni teatrali. Quest’anno, niente di niente: il solo viaggio consentito è di carta, dentro una storia inventata, una colazione da Tiffany.