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L'ostinazione delle macerie

Alessandro Zaccuri

La pretesa assolutista (quindi pure ingenua) che il lato oscuro della storia possa essere cancellato e rimosso

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I monumenti non cadono tutti allo stesso modo. Alcuni si lasciano appena scalfire dallo scorrere del tempo e dal variare degli assetti politici, patiscono mutilazioni parziali e incurie momentanee, ma alla fine restano al loro posto, tenaci e addirittura sprezzanti per quella conseguita imperfezione che sembra renderli ancor più inattaccabili. Altri, invece, precipitano senza appello, vittime di una condanna implacabile. Vengono divelti dai piedistalli, frantumati, dispersi, talvolta adoperati come materiale per una nuova, effimera celebrazione di grandezza. Di alcuni monumenti possiamo contemplare le rovine, insomma, e di altri non restano che le macerie, per riprendere l’ormai celebre distinzione proposta da Marc Augé.

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I monumenti non cadono tutti allo stesso modo. Alcuni si lasciano appena scalfire dallo scorrere del tempo e dal variare degli assetti politici, patiscono mutilazioni parziali e incurie momentanee, ma alla fine restano al loro posto, tenaci e addirittura sprezzanti per quella conseguita imperfezione che sembra renderli ancor più inattaccabili. Altri, invece, precipitano senza appello, vittime di una condanna implacabile. Vengono divelti dai piedistalli, frantumati, dispersi, talvolta adoperati come materiale per una nuova, effimera celebrazione di grandezza. Di alcuni monumenti possiamo contemplare le rovine, insomma, e di altri non restano che le macerie, per riprendere l’ormai celebre distinzione proposta da Marc Augé.

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Che un monumento possa andare in rovina è, da un certo punto di vista, una nozione abbastanza consolidata. Non c’è angolo della vecchia Europa nel quale non riemergano, più o meno camuffati, i resti di un passato non sempre onorevole. Basti pensare a una città mondo come Roma, dove la stratificazione della memoria monumentale è talmente fitta da rendere difficoltosa, in molti casi, l’individuazione del singolo reperto. Prima ancora di conseguire questo assetto, del resto, Roma è stata una capitale di statue decapitate e di tombe profanate, di antichi palazzi smantellati per innalzare chiese, di simbologie proclamate e denegate. Ognuno di questi passaggi ha lasciato dietro di sé una rovina; ogni rovina custodisce, sia pure involontariamente, una scheggia di memoria.

 

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Le macerie, al paragone, sono un oggetto culturale assai più recente. Si configurano nella loro forma attuale a metà Novecento, al termine della Seconda guerra mondiale, con la distruzione non ancora metodica delle vestigia dei totalitarismi sconfitti. La volontà di sbarazzarsi del passato è furiosa e immediata, ma nella sua sbrigatività rischia sempre di lasciare qualcosa indietro. Qualcosa che non è propriamente una rovina, ma una sorta di fossile storico: certi scorci di architettura hitleriana a Berlino oppure, più modestamente, certi motti mussoliniani che occhieggiano dalle facciate di qualche edificio nella provincia italiana, con l’esaltazione ancora intatta dell’agricoltura e la firma del Duce, lì sotto, scalpellata in modo da renderla irriconoscibile, ma non troppo.

 

Per quanto incompiuta, è un’opera di demolizione che si intendeva mettere in atto, del tutto analoga a quella che, dall’89 in poi, si è propagata dall’Est europeo in tutto il mondo: cade Lenin nelle piazze dell’ormai destrutturata – ma forse non estinta – Unione Sovietica, cade Saddam Hussein a Bagdad, cadono ovunque gli omaggi a dittatori piccoli e grandi. È a questo punto di svolta che occorre tornare, ai colpi di piccone che finalmente buttano giù il Muro di Berlino e intanto, per via di un paradosso prettamente post-moderno, attribuiscono un assetto monumentale a quelle stesse macerie, che oggi sopravvivono nei murales dell’East Side Gallery, nei souvenir labilmente certificati di cui ancora vanno a caccia i turisti. Nella mitologia del Berliner Mauer, insomma, segno di divisione e segnacolo di appartenenza.

 

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Una maceria riluttante, ecco che cosa è la memoria del Muro: la conferma che le rovine non sono disposte ad arrendersi tanto facilmente. Con questa ostinazione è chiamata a misurarsi la cosiddetta Cancel Culture, pretesa assolutista e quindi tendenzialmente ingenua che il lato oscuro della storia possa essere cancellato e rimosso, gettato via e smaltito come un rifiuto indesiderato. Non sono le premesse a dover essere poste in discussione, non la legittima esigenza di verità, né tanto meno la sacrosanta richiesta di giustizia per le vittime di schiavismi e persecuzioni, di discriminazioni e genocidi. Piuttosto, c’è da domandarsi se un materiale così ostinato, qual è appunto quello della memoria, possa davvero evaporare senza lasciare traccia.

 

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Più che altro, c’è da interrogarsi se quell’assenza di prove non minacci, alla lunga, di trasformarsi in alibi. “La battaglia delle memorie, [...
A essere presi d’assalto non sono più soltanto gli antieroi di un’epopea che, durante la presidenza Trump, sembra aver riconquistato nuovi ammiratori e detrattori ancora più ostinati. Mentre c’è chi, con clamoroso ritardo, prova a riabilitare gli antieroi della guerra civile statunitense, un classico del cinema come Via col vento crea molto imbarazzo tra i responsabili delle tv americane: meglio disfarsene o tenerlo comunque in catalogo, magari accompagnato da qualche filmato introduttivo che denunci il razzismo implicito della trama?

 

E del romanzo di Margaret Mitchell, a questo punto, quale uso andrà fatto? Già che siamo, non sarà opportuno far sparire dalle biblioteche (da quelle scolastiche, almeno) anche i romanzi e i racconti di Flannery O’Connor, nei quali il Sud degli States è rappresentato così com’è o, se si preferisce, così com’era nel secolo scorso? Quella di O’Connor è una vicenda emblematica. Sulle qualità letterarie di Mitchell si potrà anche discutere, non su quelle dell’autrice di La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti. Allo stesso modo, restano evidenti i meriti di Abraham Lincoln nell’abolizione della schiavitù e, per spostarci in Europa, di Winston Churchill nella lotta al nazismo, eppure né l’uno né l’altro sono passati indenni dalle proteste.

 

Per quanto illuminata all’epoca, di sicuro la loro mentalità non soddisfa i criteri attualmente ritenuti accettabili all’interno di una società democratica. Quanto a Cristoforo Colombo, che con le sue scoperte ha dato il via all’espansionismo coloniale, il suo destino appare ormai segnato. In Italia, com’è noto, a farne le spese è stato il brutto monumento milanese a Indro Montanelli. Non è privo di interesse notare come la Cancel Culture nasca e si sviluppi negli Stati Uniti, ossia nella nazione che più di ogni altra ha cercato di compensare la brevità della propria storia con un ricorso intensivo e talvolta indiscriminato alla monumentalità.

 

 

Nella traversata dell’Atlantico, quello che in Europa – e segnatamente in Italia – è il neoclassico, ovvero recupero di un passato mai completamente estinto, cambia di significato e aspira a fondare una classicità autonoma, orgogliosamente distinta dalla madrepatria, in una simmetria di cupole e colonnati che ha il suo apice nel complesso di Capitol Hill a Washington e più ancora a Monticello, nella leggendaria dimora di Thomas Jefferson. Gli Stati Uniti agiscono con estrema rapidità nella messa a punto di un sistema simbolico in sé concluso, ed è anche contro questa compattezza che comprensibilmente si indirizza la ribellione del movimento Black Lives Matter, attivo da diversi anni ma venuto definitivamente alla ribalta nella primavera del 2020 in seguito all’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente di polizia a Minneapolis.

 

Troppo facile, davanti a una conflagrazione così brutale, cercare di cavarsela agitando il passepartout del bistrattato “politicamente corretto”. Semmai, sarebbe opportuno riflettere sulla trappola che Gian Piero Jacobelli ha ben descritto in un intelligente saggio “per una Critica della Ragione monumentale” (Al fuoco!, Bologna, Sossella, 2020): “La non scontata coincidenza, o quanto meno concomitanza, del politicamente corretto e del senso comune”, avverte Jacobelli, non solo «implica una rimozione programmatica del dissenso non comune, ma può condurre alla “sovversione semiotica” di “un testo avulso da qualsiasi contesto e quindi destinato a determinarsi come testo e contesto al tempo stesso, in un allucinante vortice autoreferenziale”.

 

Per tornare alla contrapposizione evocata in partenza (e presente, sia pure con intonazione diversa, anche nell’analisi di Al fuoco!), bisogna impedire che le rovine diventino macerie, sottraendosi così alla possibilità di interpretazione. “La paura della cancellazione ha tormentato le società europee all’inizio dell’era moderna”, ha osservato Roger Chartier nel suo Inscrivere e cancellare (Roma-Bari, Laterza, 2006). La contestualizzazione è uno degli strumenti che sono stati adoperati con maggior successo per evitare questa amputazione della memoria. “Contestualizzare” non è sinonimo di “giustificare”, sia chiaro, né tanto meno di “negare”.

 

Ma è strano che proprio in questa fase storica, con la rete che permette una permanenza e una pervasività pressoché illimitate della memoria (tanto da far sorgere la necessità di un diritto all’oblio digitale), si cerchino di sciogliere i nodi del passato impugnando la spada della cancellazione. Come se un taglio così netto non lasciasse alcuna ferita, come se il lungo magistero artistico di Emilio Isgrò non ci avesse insegnato che ogni cancellatura è in realtà una sottolineatura mascherata. Non si tratta di invocare pacificazioni posticce, né di suggerire ambigue equivalenze tra vincitori e vinti, tra vittime e carnefici. Ma la memoria storica – meglio ancora, la “memoria culturale” studiata e codificata da Aleida e Jan Assman – non si alimenta del vuoto. Ha fame di documenti, di immagini. In mancanza d’altro, si puntella sulle proprie rovine. Le macerie, da sole, non sono sufficienti a costruire il futuro.

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