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Che fine ha fatto il popolo dei balconi?

Stefano Cingolani

Viaggio nella seconda ondata del virus, tra politica confusa, complottismo e i fantasmi della povertà

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“Quando atterrai nella repubblica della coscienza / c’era così silenzio quando i motori si fermarono / che potevo sentire un chiurlo in alto sopra la pista / ... Nessun facchino. Nessun interprete. Nessun taxi. / Ti sei portato il tuo stesso fardello e molto presto / i sintomi del tuo strisciante privilegio scompariranno”. 
Seamus Heaney
“Dalla Repubblica della coscienza”

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“Quando atterrai nella repubblica della coscienza / c’era così silenzio quando i motori si fermarono / che potevo sentire un chiurlo in alto sopra la pista / ... Nessun facchino. Nessun interprete. Nessun taxi. / Ti sei portato il tuo stesso fardello e molto presto / i sintomi del tuo strisciante privilegio scompariranno”. 
Seamus Heaney
“Dalla Repubblica della coscienza”

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La seconda ondata s’abbatte come uno tsunami e spazza via persino la speranza. Che fine ha fatto il popolo dei balconi? Com’era bello, ottimista, energetico, che nostalgia del consapevole e gioioso spirito con il quale è stato accolto il grande confinamento. In quel tremulo 15 marzo, quando non si sapeva che pesci pigliare, dalle balaustre del Villaggio Olimpico a Roma, decine di persone si sono messe a cantare “Azzurro”, la canzone di Paolo Conte resa famosa da Adriano Celentano. Intanto, alle finestre di tutta Italia venivano srotolati drappi come tappeti durante la festa del santo e innalzati vessilli di battaglia.  “Andrà tutto bene”: la pandemia dovrà arretrare di fronte a un così determinato inno di forza e volontà. Grazie ai medici e agli infermieri, gli eroi di questa guerra asimmetrica contro un nemico ormai visibile, ma sconosciuto. Se poi viviamo nel migliore dei sistemi possibili come s’illudono i Pangloss della sanità, ebbene lo vedremo una volta assicurata la vittoria. Anche Luigi Di Maio, dopo un’occhiata alla sua agenda diplomatica, fitta di soffocanti colloqui a distanza in una babele di idiomi e interessi, lascia spazio alla commozione: “Siete tutti bellissimi dai vostri balconi e finestre che cantate l’inno d’Italia e sventolate il tricolore, ognuno a suo modo fa capire quanto si sente orgoglioso di essere italiano”.

  
Viene lanciata dal Mei (Meeting delle etichette indipendenti) una singolare classifica: la Balcony Music. Le immagini e i video dei flashmob che portano i cittadini a cantare dai balconi di casa fanno il giro della rete internet. Ma quali sono le canzoni più popolari? In vetta l’inno, “Fratelli d’Italia”, seguito da “Azzurro”, “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano, “Romagna Mia” di Raul Casadei il re del liscio e poi due pezzi di musica popolare: “O mia bela Madunina” e “Abbracciame cchiù forte”. Milano e Napoli senza più rivalità, polentoni e terroni uniti nella lotta, affratellati persino nel coprifuoco. Anche se tutti noi, nati in un’altra Italia, dobbiamo onestamente ammettere la superiorità dei napoletani: il 23 marzo hanno toccato l’apice organizzando una tombola condominiale dai balconi. A Torino hanno cercato di rispondere, ma sono riusciti solo a ballare la Macarena.

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Ci eravamo illusi? Certo è che, quando siamo scesi dai balconi, abbiamo cominciato a credere nell’incredibile. Le note di Andrea Sannino (colpito anche lui dal coronavirus) sono state eclissate da quelle di Lucio Dalla: “La televisione ha detto che il nuovo anno / porterà una trasformazione / e tutti quanti stiamo già aspettando / sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno”. Adesso che è arrivato l’autunno, invece, “si esce poco la sera compreso quando è festa / e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra”. Si parla di un conflitto irrimediabile tra economia e salute come di un dilemma post-moderno, dimenticando che le condizioni sanitarie del lavoratore erano diventate una priorità già per la regina Vittoria impressionata dai romanzi di Charles Dickens. La Spagnola nel 1918 travolse un mondo impoverito dalla guerra, il Covid-19 colpisce un mondo ludico, inebriato dalla festa. Né l’uno né l’altro si è salvato. La colpa viene gettata sulla movida, ma forse dovremmo fare un passo indietro nel tempo e avanti nella comprensione. 

  
La festa non si può sopprimere, dalla notte dei tempi non c’è vita senza festa. La pandemia, però, ci ha messo davanti a un macabro interrogativo: c’è festa senza vita? Le feste hanno sempre avuto una funzione terapeutica spesso liberatoria, quelle popolari del medioevo con i loro alberi della cuccagna, quelle pagane a cominciare dai riti orfici, le feste cerimoniali che celebrano l’autorità o quelle religiose che rendono omaggio al divino, tutte sono un momento di rottura del quotidiano, una trasmigrazione in un emisfero onirico. Ancor più “la festa rivoluzionaria” alla quale Mona Ozouf ha dedicato un saggio dotto e importante. Si moltiplicavano le occasioni per emulare e superare l’Ancien Régime, c’era la festa della Ragione e quella dell’Essere Supremo, giacobini e girondini se le contendevano, fino al Terrore quando Madame la Guillotine diventava officiante, attrice, maschera del gran carnevale di sangue. “Dal maggio ’68 - scrive la storica francese con un volo pindarico - noi ci attendiamo la festa che ci promettono a un tempo la riflessione politica e quella teologica. Quest’ultima occupata a riabilitare, contro i valori pazienti e tesi del lavoro, la gratuità festiva, e l’altra in attesa della Rivoluzione che consegna la felicità non a termine, ma sul campo e si confonde con l’eterno presente”. Tre generazioni dopo, si perde ogni altro connotato e la festa diventa fine a se stessa. Nella querelle sulle discoteche che ha occupato l’estate, al posto della Sorbona c’è il Billionaire e invece della chioma rossa di Daniel Cohn-Bendit troviamo il faccione imbronciato di Flavio Briatore.

 
Adesso Natalia Aspesi su La Repubblica esplora “la vita dimezzata nella città senza notte”. Galeotto fu il titolo anch’esso figlio della festa, ma la brillante giornalista cade nella trappola dell’io diviso. Da un parte il diritto di giovani e meno giovani a “uscire in cerca di Milano la Bella”, dall’altra il severo richiamo alla guerra, ai bombardamenti, alle notti passate nei rifugi; qui le tiratine d’orecchi al governo, alle famiglie, ai giovani, ai movidisti, lì il monito sapiente: “Non solo bar e ristoranti rischiano gravi danni economici, ma anche la Scala”. Così, saremo condannati a trasformarci nel popolo dei sofà. Gli americani hanno una espressione ironica ed efficace: couch potato, diventa una patata sul divano chi passa la giornata o anche solo il tempo libero stravaccato su un soffice cuscino a non far nulla, magari a guardare una partita, un incontro di boxe o il più vuoto degli show in televisione. Sembra esserci molto in comune con il popolo incollato davanti allo schermo del computer, ma non è così perché quest’ultimo lavora, studia, opera, non subisce la realtà, ma se ne appropria e, per quel che può, la trasforma. Ecco la vera rottura che il matrimonio inatteso e per molti versi abominevole tra pandemia e tecnologia ha generato. 

 
Il balcone ritorna con un’altra funzione non più ludica, ma pedagogica. Martedì 20 ottobre, a Napoli le scuole della Campania sono chiuse per l’ordinanza del governatore Vincenzo De Luca. Si passa alla Dad, didattica a distanza. Non solo, arriva anche la Dab, didattica ai balconi. È nata da un’idea di Tonino Stornaiuolo, maestro della scuola paritaria ‘Dalla parte dei bambini’, il quale si è recato sotto le case dei suoi studenti, tra i vicoli e i balconi dei Quartieri Spagnoli, per leggere loro favole e filastrocche di Gianni Rodari. E non finisce qui: Stornaiuolo passerà dai balconi ai tetti della scuola, che si trova all’interno della Fondazione Quartieri Spagnoli. Il popolo incontinente che ha conquistato l’estate con la sua ebbrezza pagana, diventa consapevole, la scuola, la conoscenza, il lavoro riprendono il posto che era stato loro negato. 

  
Anche la libertà della quale si sono riempiti la bocca i negazionisti di ogni genere e grado, assume un altro aspetto e significato. Grandi menti e animi nobili come Mario Vargas Llosa hanno dato vita a un manifesto contro il pericolo di una deriva autoritaria nella quale la sicurezza trangugi la libertà. Storici à la page come l’israeliano Yuval Noah Harari scrive contro la dittatura della sorveglianza. Un rischio serio, dal quale dobbiamo guardarci, ma è questo che sta accadendo nel cuore dell’Occidente? In Francia dove è prevalsa l’anarchia del sociale sullo spirito geometrico della politica? In Italia dove torna in scena il proprio particolare e il Principe s’affaccia a mala pena dalla soffitta del segretario fiorentino? “Se vogliamo contenere il virus, dobbiamo cedere quote di libertà”, ha scritto Massimo Giannini il direttore della Stampa alle prese con una drammatica esperienza in terapia intensiva. Risuona nelle nostre menti l’arcigno monito di Platone: “Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine, c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto?”

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E’ dentro di noi la libertà, prima che nelle sue manifestazioni esteriori, nessuna autorità ce la può dare se non sappiamo conquistarla e soprattutto mantenerla. Ma il popolo dei balconi è scoraggiato, si barrica in casa e serra le imposte. Il governo decisionista si mostra indeciso a tutto. Con un decreto a marzo è stata chiusa l’Italia, quanti ce ne vogliono adesso per chiudere i ristoranti soltanto di notte? Gli amministratori locali che mugugnavano malmostosi contro la violazione della loro autonomia adesso rifiutano la responsabilità di mettere in quarantena un quartiere. “Lo dobbiamo decidere noi”, gridavano in primavera. “Lo deve decidere il governo”, piagnucolano in autunno. Il ritorno a scuola è più di una necessità, è un dovere, ma lo studio a distanza viene considerato un cedimento alla dittatura della tecnica da qualsiasi professore di destra che voglia indossare i lederhosen o, se di sinistra, l’eskimo. Colpa della rete, della banda poco larga? Ci sono 20 mila scuole in Italia che hanno collegamenti in fibra, ma poche di loro li hanno utilizzati. L’analfabetismo digitale e la supponenza degli ignoranti vanno a braccetto.

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“Nulla sarà come prima”, altro mantra del lockdown, ha perso la sua forza redentrice. Grande è la tentazione di affermare che niente cambia, che siamo sempre gli stessi, con gli stessi vizi e gli stessi difetti. Fraternità, comprensione, prender cura degli altri, compassione, e ancora disciplina, autocontrollo, le virtù emerse nei mesi del confinamento si sono sciolte al sole dell’estate e vengono travolte dalle scroscianti piogge d’autunno. L’immunità di gregge questo emblema del determinismo fatalistico, della selezione naturale, rimosso perché fa paura, respinto come una colpa, comminato come una sentenza di morte alle popolazioni del nord, fredde, frugali, luterane, riaffiora come una inevitabile necessità. Non c’è vaccino, non ancora, non sappiamo se e quando arriverà e per chi. Non si può chiudere tutto di nuovo. C’è chi lo sta facendo, come l’Irlanda e chi ci va vicino come la Spagna e la Francia. Chissà se l’Italia potrà evitarlo. Sarebbe catastrofico non solo per l’economia, ma per la psiche collettiva e per lo spirito di ciascuno. Una resa, una sconfitta. Giuseppe Conte ripete che non si farà, e spera in cuor suo di non violare la promessa. 

 
Come prima (anzi peggio, perché prima il Covid-19 non c’era), è rimasto il teatro della politica. I copioni si ripetono monotoni, non siamo nemmeno alla commedia dell’arte, ma al circolo vizioso del sempre uguale. Gli appelli a collaborare sono otri pieni di vento. La maggioranza si chiude a riccio. L’opposizione accarezza il tanto peggio tanto meglio. E torna la pantomima del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, già fondo salva stati: lo prendo non lo prendo, magari lo chiedo e poi lo rifiuto, non ne abbiamo bisogno, ma non sappiamo con quali risorse rimpiazzarlo. C’è attaccato lo stigma, basta poco per diventare reietti, accattoni, falliti. Aspettiamo che altri paesi ne facciano domanda; ma quali, Portogallo, Grecia, Italia e Spagna, i soliti Pigs? Nessuno si muove e tutti guardano alla Francia. Come durante la crisi dei debiti sovrani, torniamo indietro all’Europa delle nazioni, dei governi, degli egoismi. Una sensazione di impotenza toglie le forze, un virus s’insinua negli animi prima che il Sars Cov 2 entri nei polmoni. E si materializza il fantasma della povertà.

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A dire il vero il linguaggio dei numeri ci racconta una storia meno lineare. Sui conti correnti degli italiani un mese fa c’erano mille 682 miliardi di euro, poco più del prodotto lodo che quest’anno, secondo le stime dovrebbe arrivare a 1.647 miliardi. Mentre il pil scende rispetto al 2019 quando aveva raggiunto 1.787 miliardi di euro, i depositi bancari crescono (+8 per cento). Si tratta di un dato aggregato, un insieme che nasconde chi non ha niente o ha già consumato quel poco che possedeva. In ogni caso, queste sono le cifre fornite dall’Assobancaria. E’ una pura illusione monetaria? In primo luogo dobbiamo considerare lo slittamento delle imposte, le tasse non pagate vengono tenute in riserva per il momento della verità, ma non basta. Ci sono i trasferimenti di reddito che evidentemente non sono finiti tutti in consumi. Ci sono le imprese, e le più grandi hanno cominciato per prime a risparmiare. Ci sono i cento miliardi di euro che il governo è venuto via via distribuendo in varie forme. Il Sussidistan contro il quale si è scagliato il presidente della Confindustria Carlo Bonomi è servito anche alle aziende associate. Non è il Bengodi, non può durare, non durerà. Tutto questo denaro che giace in banca, per lo più senza interessi, versione moderna dei soldi sotto il materasso, è frutto della paura.

  
Quanto hanno inciso sul cambiamento d’umore del paese (sulle aspettative direbbero gli economisti) le campagne tipo “morire di fame o morire di Covid” e il bombardamento di talk-show che trasformano serissimi ricercatori in attori da cabaret? Gli eroi di un tempo diventano traditori come nel racconto di Jorge Luis Borges. Svolazzano camici bianchi e sale il coro polifonico: la scienza non sa niente, il vaccino è pericoloso, il coronavirus è un imbroglio, un’arma della guerra biologica cinese, lo strumento per selezionare una generazione. No, non sta andando tutto bene; torneremo sul balcone, questa volta senza inni, con l’animo pesante e un punto interrogativo: ce la faremo?

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