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Intervista a mia figlia

È venuto fuori quello che sapevamo già: non sappiamo nulla, ma speriamo tutto. Cioè che la scuola non solo riapra ma che non richiuda

Marianna Rizzini

Il rientro in classe, che un po' mette paura e un po' no. Il diario da comprare ma per le matite aspettiamo. E questo settembre in cui facciamo finta di niente, anche se sappiamo che non sarà come tutti gli altri

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Roma. Stavolta non è come al solito, lo sappiamo tutti. Lo sa lei, lo so io, ma non ne parliamo se non così, en passant, quando proprio il discorso salta fuori a casa dei nonni, davanti al telegiornale, o in piazza con gli amici. Ma comunque non ne parliamo. Forse perché appunto sappiamo. Io e mia figlia – che ha nove anni e mezzo e sta per andare in quinta elementare, nella stessa scuola pubblica dov'è andata fino a quel giorno d'inizio marzo – sappiamo che quest'anno quello che sembra potrebbe non essere quello che è, e viceversa.

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Roma. Stavolta non è come al solito, lo sappiamo tutti. Lo sa lei, lo so io, ma non ne parliamo se non così, en passant, quando proprio il discorso salta fuori a casa dei nonni, davanti al telegiornale, o in piazza con gli amici. Ma comunque non ne parliamo. Forse perché appunto sappiamo. Io e mia figlia – che ha nove anni e mezzo e sta per andare in quinta elementare, nella stessa scuola pubblica dov'è andata fino a quel giorno d'inizio marzo – sappiamo che quest'anno quello che sembra potrebbe non essere quello che è, e viceversa.

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Abbiamo fatto come se niente fosse, infatti, anche se spontaneamente abbiamo introdotto qualche variante: lei ha voluto comprare il diario nella solita libreria al mare, a fine agosto. Ma non ha voluto comprare le matite. “Non ancora”, mi ha detto. E non ha voluto comprare l'astuccio, dicendo che le sue compagne lo avevano comprato “ma quest'anno a che serve”. Ha fatto i compiti, ma ogni mattina, da quando siamo tornate a Roma, io le chiedo “hai fatto i compiti?”, come se non credessi neanche io alla solita scansione degli eventi.

E poi lei ha parlato, quando le ho parlato io, ed è venuto fuori quello che sapevamo già: non sappiamo nulla, ma speriamo tutto (cioè che la scuola non solo riapra ma che non richiuda, e che, come dice lei, “non si debba stare a cinquanta chilometri”). Cinquanta chilometri: questo è il metro di distanziamento amplificato nella mente della bambina, mia figlia, che durante le lezioni a distanza, dovendo scrivere su richiesta della maestra una favola “a tema Coronavirus”, ha scritto una favola a tema Coronavirus, ma ambientata nella Seconda guerra mondiale, amplificazione retroattiva che è stata giudicata in qualche modo fuori tema. E da allora mia figlia lo racconta a tutti i miei amici, quando le chiedono “Com'è andata con la scuola, quest'anno che l'avete fatta a distanza?”: che la Seconda guerra mondiale non l'avevano ancora studiata, essendo in quarta, ma lei aveva visto dei film con la nonna, e aveva anche visto “Jo Jo Rabbit” con me, prima del lockdown, e le era venuto naturale ambientare la favola in guerra, con una bambina figlia di uno scienziato che studia il vaccino per il Coronavirus, ma poi aveva dovuto riscriverla secondo i canoni della favola, mettendoci una principessa e un padre-mago, e lasciando soltanto il Coronavirus – e però la seconda versione non l'aveva convinta più di tanto.

E adesso che il lockdown è lontano, e si spera resti tale, non parliamo più di quella storia, ma quando le ho chiesto quale fosse il suo primo pensiero, all'idea di tornare in classe dal vivo, mi ha risposto “da un lato sono felice, l'ipad per scuola è una pizza”, ma anche “che forse per alcune cose è meglio con l'ipad” a distanza, “così ti puoi alzare varie volte senza che le maestre controllino se perdiamo tempo quando chiediamo di uscire per andare in bagno” e che, anche se lei non ha mai provato a farlo “perché non abbiamo interrogazioni lunghe come alle medie”, ha sentito dalle amiche raccontare che “c'erano quelli che appendevano i libri ai chiodi del muro di fronte, per leggere le risposte”, cosa che l'aveva fatta ridere. E sarà una fake news, chissà, ma fa ridere anche me, che attaccavo post -it gialli sotto al banco per far leggere le risposte al compagno somaro del banco di dietro. E però adesso mia figlia dice che sì, è contenta, ma che ha paura, un po'. “Paura che la mascherina mi soffochi, tutte quelle ore”, anche se al banco forse si può togliere, e ha paura che con “tutta quella pressione” – questo è il termine, “pressione” – pressione “per non toccare questo, non toccare quello, e stare a cinquanta chilometri dai compagni” – alla fine “nessuno si concentrerà e ci diranno siete sempre distratti”. E allora il mondo che è già cambiato ma che soltanto adesso apparirà così cambiato nei fatti, prende la forma del timore più grande, con “l'amicizia che diventa strana e la ricreazione al banco, a non poter giocare con nessuno”.

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E poi c'è la mensa, e se “già all'inizio, con magari solo quaranta positivi in Italia, la maestra ci diceva attenti a questo attenti a quello, ora come facciamo a mangiare con cinque sedie messe tra uno e l'altro?”. E la soluzione empirico delle cinque sedie a me non era venuta in mente e probabilmente è infattibile (ci saranno abbastanza sedie nelle scuole?), e però per mia figlia le cinque sedie devono essere come i cinquanta chilometri amplificati: la misura abnorme della realtà post-virus. E quando le chiedi com'è stato all'inizio, quando la scuola ha chiuso, lei mi risponde che all'inizio non era preoccupata, pensava che sarebbe ricominciata subito, “ma non in quel modo in collegamento”, quello “in cui all'inizio non capivo niente, con uno che si collegava alle 9 e l'altro alle 10 e mezzo, e i lavoretti di carta da fare al posto della lezione normale, per farci rilassare visto che c'era il Coronavirus”. E poi, dice, le è mancato il tempo pieno, “tre ore sono troppo poche, e mi mancavano anche i banchi e la lavagna”. E non si sa che cosa si aspetti ora. Non lo dice, forse perché, come me e come tutti, non lo sa. Continua a non volere un nuovo astuccio, a differenza dell'anno prima, ma ne ha costruito uno da sé. “Costruito”, dice proprio così, e a me – che mi ostino a fare finta di niente – questo pare improvvisamente il segno dei tempi.

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