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sei storie di madri, figlie, donne

Quando arrivano le ragazze

Annalena Benini

Il virus e il lockdown, il dopo, l’estate del nostro dubbio e della stanchezza. Ora che tra mille domande si ritorna a scuola, la parola torna alle scrittrici. Perché la speranza è una cosa con le piume

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La speranza è la cosa con le piume. Nei versi di Emily Dickinson, la speranza canta l’aria senza le parole e proprio non smette mai. Durante la tormenta, e sul mare più sconosciuto, l’uccellino continua a cantare, e per sé non chiede nemmeno una briciola. Non sono capace di essere quell’uccellino, penso ogni volta che leggo Emily Dickinson: io voglio sempre troppe briciole, e anche di più, interi panini su prati fioriti, e grandi scuole con le porte spalancate pronte ad accogliere i miei figli, e a raccontare loro che la speranza è la cosa con le piume, e a insegnare loro che nemmeno la tormenta più furiosa riuscirà a intimorire l’uccellino che canta. Voglio sempre troppe briciole, ma ho osservato le ragazze, le madri, le nonne, le maestre, le amiche, le sorelle in questa tormenta furiosa che è cominciata l’inverno scorso, per placarsi a tratti e anche fingere di sparire, la tormenta che ha chiuso le porte delle case e delle scuole, e per mesi e mesi queste sorelle, madri, figlie, zie, signore del panificio che non ha mai chiuso un giorno e ogni giorno ha regalato tutte le briciole a chi ne aveva bisogno, donne che non hanno mai smesso un minuto di cantare, e osservandole ho visto che anche loro hanno le piume. Non sempre sapevano di averle, ma la speranza fa questo effetto, e la mia amica anestesista ieri ha detto che l’ultimo suo paziente è uscito dalla terapia intensiva con gli occhi spalancati dalla gratitudine e dalla paura, e mentre lo raccontava anche lei spalancava gli occhi e le spuntavano le ali. Non ci vedevamo da sei mesi, lei e io, mi sono alzata per abbracciarla perché penso sempre alle briciole, ma lei ha alzato il bicchiere verso di me e ha detto sorridendo: meglio di no, dai.

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La speranza è la cosa con le piume. Nei versi di Emily Dickinson, la speranza canta l’aria senza le parole e proprio non smette mai. Durante la tormenta, e sul mare più sconosciuto, l’uccellino continua a cantare, e per sé non chiede nemmeno una briciola. Non sono capace di essere quell’uccellino, penso ogni volta che leggo Emily Dickinson: io voglio sempre troppe briciole, e anche di più, interi panini su prati fioriti, e grandi scuole con le porte spalancate pronte ad accogliere i miei figli, e a raccontare loro che la speranza è la cosa con le piume, e a insegnare loro che nemmeno la tormenta più furiosa riuscirà a intimorire l’uccellino che canta. Voglio sempre troppe briciole, ma ho osservato le ragazze, le madri, le nonne, le maestre, le amiche, le sorelle in questa tormenta furiosa che è cominciata l’inverno scorso, per placarsi a tratti e anche fingere di sparire, la tormenta che ha chiuso le porte delle case e delle scuole, e per mesi e mesi queste sorelle, madri, figlie, zie, signore del panificio che non ha mai chiuso un giorno e ogni giorno ha regalato tutte le briciole a chi ne aveva bisogno, donne che non hanno mai smesso un minuto di cantare, e osservandole ho visto che anche loro hanno le piume. Non sempre sapevano di averle, ma la speranza fa questo effetto, e la mia amica anestesista ieri ha detto che l’ultimo suo paziente è uscito dalla terapia intensiva con gli occhi spalancati dalla gratitudine e dalla paura, e mentre lo raccontava anche lei spalancava gli occhi e le spuntavano le ali. Non ci vedevamo da sei mesi, lei e io, mi sono alzata per abbracciarla perché penso sempre alle briciole, ma lei ha alzato il bicchiere verso di me e ha detto sorridendo: meglio di no, dai.

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Ho ritrovato questa cosa con le piume, la speranza, nel racconto della vita quotidiana, nelle lettere di madri mai esasperate


     

Non è finita la tormenta, però l’abbiamo attraversata durante la sua furia, e attraversandola l’abbiamo anche raccontata. Nell’inserto del Figlio ho ritrovato, settimana dopo settimana, questa cosa con le piume nel racconto e nell’invenzione della vita quotidiana, nelle lettere di madri mai davvero esasperate, nella seria comicità delle videolezioni viste dalla cucina, nel box doccia come prateria di libertà durante il lockdown più rigido, quando nemmeno il cane voleva più uscire di casa e ringhiava alla porta e al guinzaglio. Nei litigi con il tostapane e, uno dopo l’altro, con tutti gli oggetti della casa che chiedevano a gran voce la loro dose di attenzione e di Lysoform, secondo me senza alcun tatto né considerazione verso il resto del mio lavoro: mi è dispiaciuto avere, da un certo punto in poi, voltato loro le spalle, ma ognuno combatte le battaglie che può vincere, e i piatti e i tovaglioli di carta si sono rivelati, anche da un punto di vista morale, molto meno egoisti. Mi chiedo solo: perché quelle stoviglie volevano proprio me? Perché non si accontentavano di mio marito, dei miei figli, del cane tra l’altro disposto a lavare da solo tutti i piatti con i suoi metodi? Forse era un’allucinazione o un delirio di onnipotenza, o forse era sempre quella cosa con le piume che durante le emergenze ci fa cantare più forte, e sentire tutto il mondo che chiama, fuori e dentro, compresi i sottopentola, le piastrelle del bagno. La mia amica in terapia intensiva salvava la vita agli ammalati di Covid e, quando riusciva a tornare a casa, cantava come quell’uccellino per non far sentire la tormenta. Adesso è stanca, e pensa anche di avere fatto troppo preoccupare i suoi figli, vorrebbe risarcirli di tutti i baci che non ha potuto dare, delle sparizioni notturne e anche di quella ruga che le viene adesso sulla fronte: però ha fatto un bagno nel fiume, l’acqua era gelata e lei ha sentito che tutto quel dolore scivolava via. Spera tantissimo nella scuola, speriamo nei quaderni, nei libri sottolineati e nelle matite da temperare, anche nei brutti voti, nella paura delle interrogazioni, speriamo che ricominciare sarà come fare il bagno nel fiume ghiacciato, pochi minuti e uscire da lì come nuovi, con quella forza che non sapevamo di avere.

      


Se siamo qui, adesso, in attesa di qualcosa di meglio, è anche grazie alla cosa con le piume che non ci ha abbandonato mai


    

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Sarebbe bello guardare ai mesi passati con l’epicità delle grandi avventure esaurite, e rileggere tutti i racconti per non dimenticare, riderne e piangerne in cucina, quando la sera tardi tutti se ne sono andati, e restano i piatti sporchi dei quali ho imparato a non sentire il richiamo. Ma poiché questa grande avventura, se non è troppo irrispettoso chiamarla così, non è finita, i racconti hanno ancora un valore diverso. Nadia Terranova, Lisa Ginzburg, Ilaria Macchia, Fuani Marino, Gaia Manzini, Valentina Furlanetto, sono solo alcune delle scrittrici che hanno fermato sul Figlio un momento importante, divertente, a volte comico, oppure disperato, ma sempre vero. I rapporti umani dentro l’emergenza, la diffidenza e la fiducia totale, il mondo sulle spalle o il tormento di desiderare altro, cinque minuti di libertà, il rumore che fa una donna quando sboccia e le regole quando bisogna cambiarle. Se siamo qui, adesso, in attesa di qualcosa di meglio, desiderose di matite nuove e di un bagno nel fiume, è anche grazie alla cosa con le piume che non ci ha abbandonato mai, e a cui abbiamo dato sempre ogni nostra briciola. Grazie a tutte le ragazze.

   

      

   

       

       

      

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