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Bellezze al bagno

Simonetta Sciandivasci

Il mare visto dai social. Dopo il Covid abbondano le foto di nudi, di spiagge, di tramonti. Il gioco e il capriccio dell’esibizione

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La battaglia delle Termopili era appena cominciata e Serse, sovrano di Persia iracondo presuntuoso impaziente codardo, mandò a dire ai greci di lasciar perdere, suvvia, non potete farcela, moscerini, siete nati paperini, deponete le armi e fateci passare. Malòn labè, vieni a prenderle, rispose Leonida, figlio del Leone, sovrano di Sparta, marito di Gorgo, una signora che a chi aveva detto che solo a Sparta le donne comandavano gli uomini aveva controbattuto che solo a Sparta le donne generavano veri uomini. Persiano non ti temo, ti aspetto, vieni avanti, fatti sotto, veditela con me, i papaveri non sono poi così alti.

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La battaglia delle Termopili era appena cominciata e Serse, sovrano di Persia iracondo presuntuoso impaziente codardo, mandò a dire ai greci di lasciar perdere, suvvia, non potete farcela, moscerini, siete nati paperini, deponete le armi e fateci passare. Malòn labè, vieni a prenderle, rispose Leonida, figlio del Leone, sovrano di Sparta, marito di Gorgo, una signora che a chi aveva detto che solo a Sparta le donne comandavano gli uomini aveva controbattuto che solo a Sparta le donne generavano veri uomini. Persiano non ti temo, ti aspetto, vieni avanti, fatti sotto, veditela con me, i papaveri non sono poi così alti.

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Due giorni dopo, Leonida morì nella battaglia, quindi consacrato al valore eterno, e infatti il meme di lui che urla “Questa è Sparta!” in “300” lo condividono pure i romani in fila sul raccordo la vigilia di Natale. Serse, invece, ebbe la sua vittoria di Pirro. I pochi che lo ricordano sono al secondo anno di Scienze dell’antichità, ti dicono ah sì, quello, poveraccio, una volta fece fustigare il mare, trecento frustate all’acqua in mezzo allo stretto del Dardanelli, perché una tempesta aveva distrutto il ponte che i suoi uomini ci avevano costruito sopra, poco prima che ultimassero la grande opera.

 

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Quando i contagi hanno cominciato a salire, i nostri like alle foto in Grecia sono scemati. L’assistente civico che è in noi ha ceduto. “Vieni a prendermi”, ha scritto un’amica in vacanza in Grecia da tre settimane, sotto la foto che la ritrae nuda e senza seno


  

“Vieni a prendermi”, ha scritto la nostra amica in vacanza in Grecia da tre settimane, sotto la foto che la ritrae nuda e senza seno (il topless non è un lusso per maggiorate) mentre con occhio leonidesco s’immerge in un mare che potrebbe essere Castellaneta Marina e invece è Paros. Si riferisce al Covid, naturalmente: ha saputo che la Grecia è entrata nella seconda ondata pandemica dal cameriere del suo ristorantino, che la sera prima, a mezzanotte meno un quarto, le ha portato il conto sebbene lei non avesse ancora preso l’amaro, dicendole che la baracca stava per chiudere. Di già? Sìssignorina, c’è il Covid in recrudescenza. La nostra amica ha allora fatto una foto al cameriere (bello, macedone, ventenne), e in didascalia ha scritto la storia sua e del ristorante, un ristorante che resiste, e che certi capitalisti qualche anno fa avevano tentato di comprare, ma il proprietario aveva fatto spallucce come la Commissione archeologica di Atene quando Gucci chiese di poter sfilare per un quarto d’ora nel Partenone, e lo chiese premettendo che avrebbe sborsato due milioni di euro. Paese di spartani (frugali?) affetti da leonidìa cronica, per giunta contagiosa. Il cameriere si chiama Mario. Naturalmente, è un mezzosangue. Ed è lui che ogni sera ha fotografato la nostra amica, che è in Grecia da non ricordiamo più quanto, forse da sempre, di certo da luglio, l’ha fotografata mentre mangiava, mentre rideva, mentre ballava un Sirtaki fortemente ibridato con la viddanedda reggina, non sappiamo se per colpa della globalizzazione o per merito di un più antico e nobile melting pot (direte che se il risultato è lo stesso, non contano le distinzioni: ve lo lasceremo dire). Non c’è selfie, foto di gruppo, scatto paesaggistico, IG stories, autoritratto con accenno di minna che quest’estate non porga un contenuto risarcente, ovverosia le foto che l’anno scorso scattavamo senza ritegno, pensiero, freno, pudore, sono le stesse che ci scattiamo quest’anno, ma la differenza la fa la didascalia. Ci sono storie di resilienza, rosari motivazionali, frammenti di discorsi obamiani, mantra renziani, laddove l’anno scorso si zignava un ex, o s’ammiccava a un flirt lasciato in sospeso in città, o si citava Gio Evan, il poeta di preferito di Elisa Isoardi quando preferiva Salvini, o si rendicontava brevemente la vacanza, o semplicemente ci si localizzava (talvolta remunerati: non siete proprio nessuno se non v’è mai successo che il gestore d’un ristorante vi avvicinasse dicendovi che se nella foto che stavate scattando al sauté di cozze aveste indicato indirizzo preciso del suo locale, vi avrebbe fatto lo sconto del 10 per cento sul conto già decurtato del 30 per cento di The Fork). Il virus è tra noi, non lo abbiamo dimenticato, nessun sacrificio è stato vano, nessun lockdown sarà vanificato, nessun virologo rimarrà inascoltato, siamo o non siamo quelli che nessuno si aspettava che se ne sarebbero stati buoni in casa, disciplinati al supermercato e indemoniati sul balcone: dimostriamo tutto questo tramite il dolceamaro contrasto tra la foto sbracata, porno, pop porno, soft porno e la didascalia dell’afflizione e/o dell’attenzione che la accompagna. Bianca Atzei si fotografa a Skòpelos (Grecia, naturalmente), sdraiata a pancia in giù con il suo uomo che le scruta il culo standole con la faccia sul culo, e scrive un “Solamente noi”, che in questi tempi risulta essere un memento, un invito alla vacanza distanziata dal resto del mondo per il bene del mondo, un monito d’altro canto rintracciabile nello sguardo di lei alla fotocamera: quasi severo, quasi rimproverante. Ma magari è un caso.

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Quest’anno abbiamo scoperto che abbiamo lo Ionio, e che la famiglia è la sola casa che abbiamo e alla quale possiamo tornare

Appena arrivata a Paros, tre settimane fa, quella nostra amica, che è l’amica cassaintegrata che tutti abbiamo, fidanzata a un visual artist partita Iva bonificato dall’Inps e prima che dall’Inps dagli affittuari della casa di Firenze che i suoi genitori gli avevano regalato quando aveva deciso di abbandonare l’università per lo Ied, si era fotografata sul bagnasciuga, seminuda e molto in forma, e in didascalia aveva scritto: “La sinistra riparta dalla Grecia”. Avevamo messo like, ma poi ci era sembrato poco e avevamo messo cuore, volendole pubblicamente esternare la nostra benedizione, poiché ci aveva raccontato di aver prenotato quella vacanza involontariamente, manifestandoci il suo cruccio, il suo non proprio insopprimibile senso di colpa, ci aveva detto che una mattina s’era svegliata e aveva trovato quest’offerta imperdibile per la Grecia, svariate settimane al prezzo di un weekend, e qualcosa dentro di lei, una specie di forza destinale, sotterranea, primigenia, l’aveva spinta a cliccare e prenotare, al volo, frish e mang, come dicono nelle Puglie, sia sulla costa che sul tavoliere. Ci aveva detto, la nostra amica cassaintegrata (poverina), che in quanto cassaintegrata aveva proprio bisogno di una vacanza, e che d’andare in Calabria proprio non le andava, Sardegna c’era già stata, Liguria per carità c’è pieno di brianzoli, Rimini senza Tondelli non ha senso, Riccione senza i The Giornalisti nemmeno, e prima che noi obiettassimo che però forse poteva guardarla da un altro punto di vista, quello del turismo patrio e responsabile, ci aveva detto che dopotutto anche la Grecia andava aiutata, e da ben prima dell’Italia, si sono poi mai ripresi da quell’orrenda crisi, penso proprio di no, e noi lì a guardare, con i tedeschi che li massacravano, e noi zitti, cazzo, vedi quanto è necessario andare in Grecia, ora più che mai? Le avevamo dato ragione, non ci era parso opportuno polemizzare, né di farle notare che stavamo avendo quella conversazione perché lei sapeva e noi sapevamo che starcene più o meno a casa sarebbe stato forse il caso, a due mesi da un lockdown globale per via di una epidemia globale. Siamo mica assistenti civici, noialtri.

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Siamo italiani.

 

Liberali, liberisti, libertari. Altri libertini, altri italiani. E così, a tutte le foto della nostra amica inutilmente preoccupata, come tutti, della sua onorabilità civica, avendo essa ricadute sull’engagement di Instagram, abbiamo reagito con pollici e cuori plebiscitari, commentato con sirene e “daje!” (prima che con un daje Grillo benedisse la ricandidatura di Virginia Raggi, inibendoci come Berlusconi inibì lo sventolio del tricolore per certi puri di cuore quando fondò Forza Italia). Noi volevamo che la nostra amica si godesse le ferie, così come vorremo potercele godere noi, anche se dopo Ferragosto arriverà la stretta, e quindi anche quest’anno, pur avendo mantenuto il lavoro e persino aumentato i profitti, probabilmente non andremo né a Santorini né a Santa Marinella (non Ligure, laziale, quella dove hanno casa le suocere delle coraggiose provinciali che sposano o amano dei romani di Roma est).

 

Quando i contagi hanno cominciato a salire davvero, i nostri like all’amica in Grecia sono scemati. L’assistente civico che è in noi ha ceduto, il delatore che ci portiamo dentro ha vacillato, la zia zitella che ci avvelena il sangue ha preso a riempirci il cervello di cattivi pensieri e abbiamo allora purtroppo pensato: ma guarda questa stronza, cafona, inopportuna, cicciona, sì anche cicciona, guarda se per colpa sua e degli insaziabili come lei, adesso dovremo fare un’altra quarantena, guardala, questa sfacciata figlia di papà, ma trovati un lavoro, ma trovati un fidanzato con un lavoro vero, ma fai un figlio, ma chissenefrega di quanto era buona la patata allo yogurt acido che hai mangiato all’aperitivo, brutta stronza irresponsabile.

 

Siamo così. E lei se n’è accorta, e ha reagito in due modi: ha cominciato a fotografarsi mentre fa shopping tra le isole, compra tutine, baby doll, due pezzi, ciabatte, parei, collane, saponi lavici, maschere di un’argilla che cresce solo tra le pareti delle celle delle Meteore, dove ci sono solo monaci, e di femminile o femmineo non è ammessa traccia neppure nel pollame (un po’ come i certi barber shop di gran moda nell’ante Covid). Naturalmente, fa shopping seminuda. Nelle sue foto non mancano mai un vista mare e una porzione di culo (del suo). Acrobata professionista, agevolata dal talento del visual artist che purtroppo sposerà (noi saremo invitate, forse a titolo di testimoni, a meno che un meteorite non spazzi via il pianeta, ora che abbiamo capito che ai matrimoni questi non rinunciano neanche in mezzo a una pandemia – se non siete stati invitati almeno a un paio di nozze semiclandestine in fase tre, non siete nessuno). Secondariamente, la nostra amica s’è fotografata senza alcuna grazia, con la ricrescita in bella vista e anche i chili in più acquisiti grazie alle ingenti quantità di miele e yogurt acido che accompagnano qualsivoglia pietanza greca, e, Leonida delle Leonide, ha scritto: “Va bene, allora resto qui!”. In risposta alle nostre non risposte, e anche ai giornali italiani che le fanno sapere che al rientro in patria dovrà fare la quarantena. Siamo riusciti a non commentare che sarebbe magnifico se restasse laggiù e abbiamo per un momento accarezzato l’idea di avvelenarle il gatto, che naturalmente ha affidato alle nostre cure, perché tanto tu resti in città, giusto?

 

Giusto. Siamo rimasti in città, dove le strade non sono deserte, ma la nostra cognizione di vuoto è irrimediabilmente cambiata dopo il lockdown e ora un comune sulle Dolomiti lucane ci sembra New York City. Dalla Basilicata ci giungono foto incredibili di sdraiati nudi (naturalmente) sui tetti dei Sassi di Matera, città distanziata per architettura, ma dove si vanno a visitare case grotte dove fino a sessant’anni fa gli esseri umani convivevano, assembratissimi, in compagnia di galline e bestie da cortile.

 

Chi se n’è rimasto a casa, per responsabilità, per tedio, per turnazione crudele, per cassaintegrazione non integrata dai genitori come accaduto a certe amiche attualmente domiciliate a Paros, guarda le foto dei vacanzieri e maledice non tanto lo storytelling patriottico, né gli status da Coldiretti di molti, o il risveglio divulgativo di tutti, ché non c’è stato bagnante che non ci abbia promosso un litorale siculo sotto la foto dei suoi addominali che galleggiano in questa piscina anni Ottanta che è il mare sui social network – ha scritto Mattia Carzaniga sul Rolling Stone: una vita in Thailandia e invece avevamo lo Ionio, chi se l’aspettava. Una da casa non maledice nemmeno, poiché non lo vede o se lo vede ne è intenerita, il modo in cui non riusciamo a metterci in mezzo, a primeggiare, a dire quanto siamo fichi, atletici, morali, giusti, perbene, pure nelle vacanze della più mesta estate italiana degli ultimi trent’anni (cinquanta, quaranta, cento, dieci, ma che fa). Una da casa non maledice neanche la sensazione che il Covid ci abbia insuperbiti, al punto che alcuni di noi riescono a scrivere, sotto le foto di una partita a calcetto sul bagnasciuga: “Questo 4 a 1 lo dedico a Bergamo”. Quello che realmente ci infastidisce è la bruttezza esibita, i corpi flaccidi, i brufoli liberati, tutto quel body positive di cui ciascuno di noi vorrebbe essere il solo a beneficiare: accettate me, brutta sporca e cattiva, e imbellettatevi voi, e i vostri figli, e i figli dei vostri figli.

 

Siamo rimasti in città, dove le strade non sono deserte, ma la nostra cognizione di vuoto è irrimediabilmente cambiata

I reportage famigliari da spiagge familiari hanno una pornografia tutta domestica che è una sconcezza dal taglio neorealista. Chi non è andato a Paros e da Milano è tornato a Lamezia, del resto come ogni anno, non si vergogna di fotografarsi mentre mangia l’anguria con il cugino sugli scogli: l’anno scorso sarebbe stato volgare, quest’anno è responsabilizzante. Quest’anno abbiamo scoperto che abbiamo lo Ionio, e che la famiglia è la sola casa che abbiamo e alla quale possiamo tornare, pure se ci ammaliamo di un morbo contagioso come lo sbadiglio. In famiglia possiamo essere grassi quanto vogliamo: ci sarà sempre qualcuno, una nonna o una zia, che ci troverà sciupati. In famiglia, quest’estate, ci fotografiamo orrendamente felici, incuranti del distanziamento che però pretendiamo nelle foto di Luigi Di Maio a cena con Andrea Scanzi, che anziché risultarci intollerabili perché mostrano un ministro che coccola un giornalista e viceversa, ci indignano perché ritraggono soggetti troppo vicini gli uni agli altri. La misura dei centimetri ci ha colonizzato lo sguardo, ha sostituito il posto, già vacante, che un tempo era del riserbo.

 

I più poetici, i discreti, quelli che non dimenticano che domani potrebbe essere tutto finito, e che alle spalle abbiamo migliaia di morti, non fanno foto. No. Loro fanno video. Fanno instagram stories. Parlano del libro che stanno leggendo, e lo se lo sfogliano addosso, mentre se ne stanno sdraiati in mutande – talvolta fermano l’immagine e fanno una foto da bookblogger, con la copertina sul pube e lo stabilimento di Catanzaro Lido, sfocatissimo, sullo sfondo. Filmano la luna che si rifrange sulle onde del mare, mettono in sottofondo Lucio Dalla o Four Tet, e dopo sei o sette clippini degni di Tarkovskij restringono il campo, abbassano la camera e si riprendono un piede, inequivocabilmente di loro proprietà, che cammina sulla sabbia e, prima di entrare in acqua, saluta con un cenno del pollicione. A scanso di equivoci, fosse mai che pensate che Tarkovskij non va in vacanza e ricicla i clippini di qualcun altro. Andate a prenderlo.

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