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La dittatura dell’io

Simonetta Sciandivasci

La nostra vita online tra Facebook e psicoterapia, tra ego social e privato. Ma i romanzi ci libereranno

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Il mondo è pieno, come lo è sempre stato, di dittatori, delinquenti, criminali, mafiosi, truffatori, traditori, assassini, hacker. Ma noi odiamo Woody Allen. Non Bolsonaro, Bashar al Assad, Kim Jong Un, che anzi ci è simpatico (viene bene nelle gif), ma un ultraottantenne che nelle ultime pagine della sua biografia ha scritto che quando sarà morto, immagina che quasi niente potrà dargli fastidio “compreso il soffiatore per foglie che usano i vicini”. Contro ogni sentenza, prova, controprova che lo scagiona dalle insinuazioni di una moglie squilibrata, siamo riusciti a pensare che sia un pedofilo stupratore molestatore di figlie e abbiamo ottenuto che nessuno o quasi nessuno volesse più lavorare con lui, che venisse ostracizzato e diventasse un paria, cosa che per lui “presenta alcuni lati positivi. Per esempio, non ti chiedono di salvare le balene, pronunciare discorsi di fine anno”. Odiamo Chiara Ferragni, una che va agli Uffizi, si fotografa davanti alla Nascita di Venere di Botticelli e in due giorni fa aumentare quasi del 25 per cento i visitatori. Ci indigniamo quando Cesare Cremonini, che è un cantante, in una trasmissione televisiva fatta di sketch comici, dice di aver cambiato il nome alla sua domestica; ridiamo pazzamente quando Vincenzo De Luca, che è un politico, nei suoi videomessaggi per i cittadini, promette di mandare carabinieri col lanciafiamme alle feste di laurea. Troviamo destrorso, quasi fascista, Beppe Sala che si fotografa in cima al Duomo di Milano con le frecce tricolore alle spalle; quando il Pd vota a favore del rinnovo del finanziamento alla Guardia costiera libica ce ne accorgiamo a stento. Giovedì è stato il settantanovesimo compleanno di Sergio Mattarella, e Sebastiano Messina ha scritto sulla Repubblica che c’è stata “un’alluvione di auguri con la gara a chi elencava le maggiori virtù del presidente”, di cui godono soltanto i leader russi, cinesi o nordcoreani, “con la differenza che questo non è stato l’inchino obbligatorio dei sudditi al capo del regime, ma il grazie corale di un popolo”. Bene, bravi noi. Non è mai troppo tardi per capire, e nemmeno per emendarsi: in questi anni, siamo riusciti a odiare, insultare, irridere anche Sergio Mattarella. Naturalmente, gli odiatori uniti contro Mattarella e tutti gli altri bersagli, sono parsi una maggioranza plebiscitaria anche quando erano una minoranza infima e infame, per la semplice ragione che strepitavano.

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Il mondo è pieno, come lo è sempre stato, di dittatori, delinquenti, criminali, mafiosi, truffatori, traditori, assassini, hacker. Ma noi odiamo Woody Allen. Non Bolsonaro, Bashar al Assad, Kim Jong Un, che anzi ci è simpatico (viene bene nelle gif), ma un ultraottantenne che nelle ultime pagine della sua biografia ha scritto che quando sarà morto, immagina che quasi niente potrà dargli fastidio “compreso il soffiatore per foglie che usano i vicini”. Contro ogni sentenza, prova, controprova che lo scagiona dalle insinuazioni di una moglie squilibrata, siamo riusciti a pensare che sia un pedofilo stupratore molestatore di figlie e abbiamo ottenuto che nessuno o quasi nessuno volesse più lavorare con lui, che venisse ostracizzato e diventasse un paria, cosa che per lui “presenta alcuni lati positivi. Per esempio, non ti chiedono di salvare le balene, pronunciare discorsi di fine anno”. Odiamo Chiara Ferragni, una che va agli Uffizi, si fotografa davanti alla Nascita di Venere di Botticelli e in due giorni fa aumentare quasi del 25 per cento i visitatori. Ci indigniamo quando Cesare Cremonini, che è un cantante, in una trasmissione televisiva fatta di sketch comici, dice di aver cambiato il nome alla sua domestica; ridiamo pazzamente quando Vincenzo De Luca, che è un politico, nei suoi videomessaggi per i cittadini, promette di mandare carabinieri col lanciafiamme alle feste di laurea. Troviamo destrorso, quasi fascista, Beppe Sala che si fotografa in cima al Duomo di Milano con le frecce tricolore alle spalle; quando il Pd vota a favore del rinnovo del finanziamento alla Guardia costiera libica ce ne accorgiamo a stento. Giovedì è stato il settantanovesimo compleanno di Sergio Mattarella, e Sebastiano Messina ha scritto sulla Repubblica che c’è stata “un’alluvione di auguri con la gara a chi elencava le maggiori virtù del presidente”, di cui godono soltanto i leader russi, cinesi o nordcoreani, “con la differenza che questo non è stato l’inchino obbligatorio dei sudditi al capo del regime, ma il grazie corale di un popolo”. Bene, bravi noi. Non è mai troppo tardi per capire, e nemmeno per emendarsi: in questi anni, siamo riusciti a odiare, insultare, irridere anche Sergio Mattarella. Naturalmente, gli odiatori uniti contro Mattarella e tutti gli altri bersagli, sono parsi una maggioranza plebiscitaria anche quando erano una minoranza infima e infame, per la semplice ragione che strepitavano.

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L’odio che ci infuoca, aizza e trasfigura tutti è molto stupido e disinformato, ma non è cattivo. E’ vile e vanesio, predilige gli inermi. Il nostro super io, dittatore savonarolesco che preme compatta schiaccia, è un super scemo, un grande ottuso. Si crede circondato da nemici, è suscettibile, vulnerabile, pieghevole, riottoso come il vicino di casa di Amelie, che viveva recluso da anni, non usciva neanche sul pianerottolo perché non voleva “incontrare chissà chi”, ogni anno rifaceva lo stesso quadro di Renoir, “La Colazione dei canottieri”, era così solo che a volte gli sembrava che gli uomini che dipingeva spostassero gli occhi per fargli un dispetto, e si faceva un’idea delle persone osservandole da lontano, dietro la finestra di casa sua, senza neanche sentire che voce avessero.


L’odio che ci infuoca, aizza e trasfigura tutti è molto stupido e disinformato, ma non è cattivo. E’ vile e vanesio, predilige gli inermi


 

Noi facciamo la stessa cosa: decifriamo gli altri da quello che scrivono su Facebook, fotografano su Instagram, ballano su Tik Tok, ascoltano su Spotify. E lo fa anche il mercato, che da lì deduce i bisogni di tutti, e li usa per inventarne di nuovi, ma affini, e ci connette gli uni agli altri in un cerchio che sembra allargare il mondo intorno a noi e, invece, lo restringe, lo rende ripetitivo, omogeneo: a immagine e somiglianza nostra e delle nostre paure, delle nostre deduzioni. Siamo certi di avere ragione, e indaghiamo la realtà per trovare una conferma alle nostre idee, anziché per farcene di nuove. In questo, internet è uno strumento formidabile. Linkiesta ha pubblicato questa settimana una “Indagine sul maschio italiano”, firmata dalla scrittrice Viola Di Grado che ha studiato le biografie dei maschi su Tinder, e ha dedotto che “il nostro è un paese misogino” dalle preferenze che ha trovato indicate sui profili degli utenti (no logorroiche, no mosce, no problemi col padre; no permalose, no serie, no inibite; no musone). In verità, più che di una deduzione, si tratta della conferma di un’idea preesistente: della dimostrazione di una tesi, e non di un’indagine. Noi non osserviamo la realtà: ce ne serviamo per darci ragione ed elaborare un giudizio che ci serve a qualificarci, a identificarci, a renderci riconoscibili di modo da avere a che fare soltanto con chi ci è simile. Incredibilmente, pretendiamo che un mondo così soggettivato sia universale.

 

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Nel 1993, i Nirvana registrarono una canzone che è rimasta inedita fino al 2002, “You know you’re right”, una delle ultime che Kurt Cobain scrisse prima di ammazzarsi perché non sopportava d’essere diventato un’icona, un riferimento, un volto da stampare su una maglietta santificata che, a chi la indossava, bastasse a dire “questo sono io”. Che paradosso, per uno che la sua identità voleva distruggerla, minarla continuamente. “You know you’re right” è stata scritta quando l’ego cominciava a sgomitare, ed è stata pubblicata quando cominciava a istruire la sua propria idea di mondo, pensando che fosse la sola possibile. Fa così: “You know you’re right, I’m so warm and calm inside, I no longer have to hide, let’s talk about someone else, the steaming soup begins to melt, nothing really bothers her, she just wants to love herself”.

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Rielli e Tolentino colgono un punto luminoso e terribile: ci siamo messi a odiare perché non avevamo niente da fare. E ora? E domani?


 

E’ una lettura della mano della generazione che diventerà adulta di lì a poco, che è nata nel ’77 o immediatamente prima o immediatamente dopo, e di quell’annata formidabile non ha ereditato niente, non il punk, non la militanza politica, non la spinta vitale, non l’utopismo. Il 21 aprile del 1977, durante gli scontri tra polizia e studenti, nel quartiere san Lorenzo, a Roma, rimane ucciso l’agente Settimio Passamonti. Il giorno dopo, nasce Ambra Angiolini, alla quale nei primi anni del successo viene spesso fatta notare la coincidenza, tanto che lei una volta risponde: “Basta con questo maledetto Settantasette!”. In quel basta c’è tutto il post ideologico contestato ai millennial da chiunque, persino dai loro fratellini ventenni, che li irridono come fossero nipotini svegli, separati da loro da più di mezzo secolo di storia, eventi, evoluzioni che per forza di cose li ha lasciati indietro. In Ambra, in quella stupenda, arrogante, imperfetta ragazzina che saliva sul palco oscurando tutte le altre, sentendosi e pretendendosi unica – “io non sono normale, normali sarete voi” – c’è il germe del protagonismo fatto di apparizioni e apparenze, rumore, prevaricazione, inconsistenza.

 

Nel suo “Trick Mirror”, che ha scritto tra il 2017 e il 2018 e che è appena stato pubblicato in Italia da NR Edizioni, Jia Tolentino, scrittrice e columnist del New Yorker, “voce impareggiabile della generazione millennial”, scrive che a renderci impolitici ed egomaniaci è stato internet, o meglio qualcosa che è successo prima a internet e poi, di riflesso, a noi. Questo: il passaggio dall’essere una piattaforma sulla quale ci si radunava in forum aperti, attirati dalla curiosità e dalla competenza altrui, il Web 1.0, a un luogo virtuale dove, “quello che hai fatto si intreccia con quello che hanno fatto tutti gli altri, e le cose che sono piaciute agli altri diventeranno quelle che ti interessano”. Quel passaggio istituì un nuovo modo di stare in internet, quando non bastò più essere fruitori, naviganti, osservatori: per esistere bisognava registrare digitalmente la propria esistenza. Da un luogo di informazione e formazione di sé, diventava allora uno spazio di espressione di sé. Un’espressione indirizzata a un pubblico sempre affine, vicino, amico. Ricordate i blogger? Fa notare Jia Tolentino che il pubblico principale dei blogger erano gli altri blogger, perché “l’etichetta prevedeva che se qualcuno segnalava il tuo blog, tu dovevi segnalare il suo” e, di lì a poco, essere letti, visti, apprezzati da incentivo sociale si trasformò in incentivo economico. La monetizzazione di sé ha rappresentato il passaggio cruciale, posto le basi per gli algoritmi, gli influencer, i creator, la pressione sociale che dalle cene fuori, dai Natali degli altri, dai colloqui scolastici, si è trasferita tutta nel modo in cui ci si racconta, filma, fotografa, mostra, posiziona sui social network. Online comunichiamo un’identità corretta, convincente, efficace, splendida, e lo facciamo senza mai separarcene, perdendo così presto la cognizione della sua costruzione, del suo artificio. E’ per questo che ci contesta, ci irrita: noi abbiamo perduto il senso della nostra fallibilità, della proporzione tra chi siamo e chi crediamo d’essere o facciamo in modo che gli altri pensino che siamo. Quando il prossimo arriva a metterci in discussione, non lo vediamo come interlocutore, ma come un intralcio che ci deconcentra, ci distrae, ci porta via tempo. Lo odiamo perché non riconosce la nostra autorità assoluta, che vediamo riverberare in un mondo virtuale che ci asseconda e, assecondandoci, ci convince del fatto che le nostre intuizioni e convinzioni non sono semplicemente legittime: sono esatte, trascinanti. E’ un microcosmo che ci sembra infinito perché non si scontra con il dato reale (che spesso è incarnato dall’altro) e sul quale noi rimuginiamo incessantemente. “Mia sorella ha piantato una rapa e non fa che parlarne tutto il tempo”, ha detto una sedicenne londinese alla quale Vice ha chiesto cosa pensi dei millennial.


Noi non osserviamo la realtà: ce ne serviamo per darci ragione ed elaborare un giudizio che ci serve a qualificarci, a identificarci


 

In “Odio”, il nuovo romanzo di Daniele Rielli, durante una cena di quelle che facciamo tutti, con i maschi che sbracano da una parte e le ragazze che cercando di dare uno spessore alla serata, uno dei protagonisti dice agli altri, citando Dostoevskij: “Aver coscienza di troppe cose è una malattia”. Lo scrive anche Tolentino: viviamo una vita pensata, non agita, immaginata, espressa, raccontata. La prima, gigantesca conseguenza è che non sentiamo i sentimenti: li trasmettiamo. In quella trasmissione, che è innanzitutto una traduzione per il pubblico, c’è il problema coessenziale alla traduzione stessa: il tradimento. “La rappresentazione di un’attività sarà in qualche misura diversa dall’attività stessa e quindi, inevitabilmente, la traviserà”. Minimizzare l’azione e potenziare esclusivamente il pensiero ha fatto di noi dei mostri percepiti. E’ su questo che Rielli e Tolentino s’incontrano, ed è su questo che dovremmo soffermarci, molto di più che sull’umanità che ci sembra perduta, incrudelita, demoniaca, dispotica: esiste ancora una differenza enorme tra chi siamo davvero e chi sembriamo.

 

Il protagonista di “Odio”, Marco De Sanctis, gestisce un’azienda di Big Data, che elabora predizioni sul futuro “parecchio più affidabili delle profezie generate dalla mente umana”, servendosi di un algoritmo che definisce “evolutivo”. A un certo punto, alcuni giornalisti rispolverano un vecchio caso di cronaca, nel quale era stato invischiato, e per alcune settimane era persino sembrato che fosse un assassino, tranne poi venire assolto, uscirne così pulito e lindo da dimenticarsene. Ma il nostro passato non è né una terra straniera, né un bagaglio, un curriculum, un tesoro prezioso: il passato è diventato un documento che può ritorcercisi contro, una velina che qualcuno può manomettere con una semplice reinterpretazione. Le nostre storie sono, ormai, l’insieme delle avventure che compiamo per la salvaguardia della nostra reputazione. Siamo militanti della ripulitura del nostro io, manutentori coatti della nostra immagine. Mostrandoci questa e molte altre schiavitù del nostro presente, Rielli racconta che siamo ricattabili, riducibili, ritraibili non perché siamo dei mostri, ma perché siamo mezzi. Ci crediamo attori e, invece, siamo canovacci. Soprattutto, Rielli racconta che quell’odio scemo, nevrotico, infantile che crediamo attraversi il mondo e lo prepari alla guerra è, in realtà, un fremito di rivolta che tutti abbiamo contro noi stessi e la gigantesca balla che siamo diventati, contro l’insostenibile sensibilità a tutto che ci costringiamo a simulare. Quell’odio è la pulsazione di un cuore che si pretende libero, e che vuole tornare a sbagliare, a cambiare idea, a disorientarci, a rapirci, e che ne ha abbastanza di pontificare e non attraversare, di conduce e non viaggiare. Rielli e Tolentino colgono un punto luminoso e, insieme, terribile: ci siamo messi a odiare perché non avevamo niente da fare. E ora? E domani?


Viviamo una vita pensata, non agìta. La prima gigantesca conseguenza è che non sentiamo i sentimenti: li trasmettiamo 


 

Claudia Durastanti, in un articolo sulla cancel culture apparso su Internazionale, ha scritto: “Il decentramento di sé – quella pratica per cui invece di fare sempre mea culpa del proprio privilegio si sta in silenzio a osservare, lasciando che a condurre la conversazione siano gli altri – viene percepito come una sconfitta, come una perdita e una rinuncia, un darla vinta ai censori. E’ interessante che questo accada proprio mentre la letteratura decide di intervenire sul decentramento di sé: basta pensare alla ‘Trilogia dell’ascolto’ di Cusk, a ‘I vagabondi’ di Tokarczuk, a ‘Il contrario della nostalgia’ di Taylor, dove si ricorre a personaggi senza genere, senza un’identità del tutto definita, senza nomi, etnie, senza un io categorico”. E così, mentre noi restiamo ossessionati da cosa abbiamo nelle mutande e ci domandiamo quale sia il modo più completo e rispettoso di trascriverlo sulla carta d’identità, mentre noi ci cerchiamo tra l’ego social e l’ego privato, tra Facebook e lo psicoterapeuta, tra il corso di autostima e i viaggi sciamanici, i romanzi ci lasciano perdere, ci fluidificano e ci sposano, innestano, uniscono a piante, fiori, frutti, bestie, spiriti. Ci ridimensionano, cancellandoci per ridisegnarci, diminuiti ma indefiniti. Liberi.

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