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Ode al vecchio bar, luogo di civiltà e perdizione in un’Italia diversa

Sergio Belardinelli

Il lascito del lockdown su uno dei nostri simboli più cari

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Tra i tanti esercizi commerciali che temo usciranno martoriati dalla conseguenze del Covid-19 ce ne sono alcuni che mi sono particolarmente cari: i bar. Chi è nato e vissuto in provincia negli anni Cinquanta-Sessanta conosce meglio di chiunque altro i significati simbolici, emozionali, civili evocati da questi luoghi spesso considerati “di perdizione”. Per questo, gironzolando qua e là per l’entroterra marchigiano (ma credo che la cosa valga per gran parte dell’Italia), è triste dover constatare come siano proprio i bar dei piccoli paesi ad aver subito il colpo più duro dal lockdown di questi mesi. Ogni tanto se ne vede uno chiuso, evidentemente da poco, che per ragioni immaginabili non è riuscito a riaprire. Un dispiacere che cerco di compensare ripensando all’infanzia.

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Tra i tanti esercizi commerciali che temo usciranno martoriati dalla conseguenze del Covid-19 ce ne sono alcuni che mi sono particolarmente cari: i bar. Chi è nato e vissuto in provincia negli anni Cinquanta-Sessanta conosce meglio di chiunque altro i significati simbolici, emozionali, civili evocati da questi luoghi spesso considerati “di perdizione”. Per questo, gironzolando qua e là per l’entroterra marchigiano (ma credo che la cosa valga per gran parte dell’Italia), è triste dover constatare come siano proprio i bar dei piccoli paesi ad aver subito il colpo più duro dal lockdown di questi mesi. Ogni tanto se ne vede uno chiuso, evidentemente da poco, che per ragioni immaginabili non è riuscito a riaprire. Un dispiacere che cerco di compensare ripensando all’infanzia.

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Allora non tutti potevano entrare in un bar. Noi ragazzini potevamo entrarvi soltanto per comperare un ghiacciolo o una gassosa; per una donna sarebbe stato disdicevole farlo e, ancora pochi anni prima di quelli che sto raccontando, i contadini dovevano aspettare che il padrone uscisse per potergli parlare. Sta di fatto che a sei, sette anni anche il semplice passare davanti al bar accendeva sempre una quasi morbosa curiosità. Ci erano precluse ovviamente la sala del biliardo e la sala dove di giorno si giocava a briscola e tressette e di notte si giocavano vere e proprie fortune a macao, ramino e scala quaranta. Ma poteva darsi un’eccezione, una specie di prodigio che solo alcuni di noi ebbero la possibilità di raccontare: entrare nel bar insieme al nonno o allo zio per comprare la solita gassosa e imbattersi in qualcuno che invitasse il nostro accompagnatore a fare una partita a briscola e tressette. In questo caso il divieto era infranto, si aggiungeva una quinta sedia vicino al tavolo da gioco e scattava la fatidica sentenza uguale per tutti i ragazzini del paese: “Siediti qui e non ti muovere”. Che si dovesse stare muti non c’era neanche bisogno di dirlo.

 

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Ero letteralmente incantato da quelle partite a briscola e tressette. Mi piacevano l’abilità con la quale i giocatori si facevano i cenni, difficili da cogliere anche per chi era fuori dal gioco, la platealità dei gesti con i quali si ammazzava la briscola dell’avversario; la lezione severa che inesorabilmente seguiva a ogni giocata sbagliata del proprio compagno; la soddisfazione incontenibile per una mano vinta che sembrava disperata. Il tutto avvolto in un linguaggio che ai toni normali preferiva chiaramente quelli roboanti.

 

Ma più ancora mi incantava la sala del biliardo. Attraverso una porta a vetro giallina, che spesso veniva lasciata aperta, vedevo gente che quando non se ne stava immobile appoggiata alla stecca, si muoveva come al rallentatore, dando vita a strane figure che il fumo denso della sala e la luce bassa sul biliardo rendevano addirittura inquietanti. Una sorta di Roncisvalle silenziosa che contrastava con il chiasso di chi combatteva la sua battaglia al tavolo da gioco: questo era il bar della mia infanzia.

 

Il confronto con gente che dopo due mani di tressette conosceva praticamente tutte le carte in mano agli altri giocatori mi ha indotto ben presto a pensare che il gioco delle carte non facesse per me; così, col tempo, quando ci si poteva entrare senza essere accompagnati, il bar è diventato un’altra cosa, soprattutto un luogo di accese discussioni calcistiche e politiche, che però non venivano mai confuse nella loro natura. Se si parlava di calcio era chiarissimo che il tifo dell’uno valesse quanto quello dell’altro, ma quando si passava alla politica mai ho avuto l’impressione che uno valesse uno; esistevano i “maestri” e come tali venivano riconosciuti, anche quando avevano idee politiche diverse e confliggenti. Li si ascoltava per imparare, non per sapere chi avrebbe vinto le elezioni amministrative. Per soddisfare quest’ultima curiosità ci si rivolgeva non a caso al barista, il cui pronostico peraltro valeva almeno quanto valgono oggi i nostri sondaggi.

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Si dirà “altri tempi”, certo. So bene che i bar italiani, in città e in periferia, nell’entroterra e sulla costa, sono ormai diventati un’altra cosa. E’ cambiata l’Italia ed è cambiato il mondo, non sono cambiati soltanto i bar. Oggi quando si entra in un bar lo si fa soprattutto per prendere un caffè o per conversare del più e del meno con gli amici davanti a una bibita o a un aperitivo. Il più delle volte andando di fretta. So anche bene che i bar che ho visto chiusi in questi giorni, prima che arrivasse il lockdown erano frequentati soprattutto da persone anziane in cerca di compagnia. Ma proprio questo è un motivo di dispiacere in più. Non è la stessa cosa che un anziano possa fare una partita a briscola e tressette nel bar del paese o che debba farla in qualche “circolo” appositamente aperto per anziani come lui. I muri e i tavoli di certi luoghi hanno una storia, parlano, raccontano, fanno compagnia. Sono unici insomma. Per questo, credo, entro sempre volentieri in un bar e ogni volta che ci passo davanti, chiuso o aperto che sia, non riesco a trattenermi dallo sbirciarci dentro.

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