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Catalogo dei nuovi sentimenti

Simonetta Sciandivasci

Sta cambiando il nostro senso del tempo, della distanza, della nostalgia. Fidarci è l’unica cosa che ci resta

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Non possiamo non dirci pagani. Il coronavirus ci punisce, così diciamo, perché siamo stati tracotanti, asfissianti, prepotenti, esuberanti, eccessivi, assoluti. Abbiamo sperperato, abbiamo peccato di ubris, diciamo così, come quando eravamo al liceo e studiavamo i miti greci e le rappresaglie degli dei e le condanne eterne cui destinavano chi infrangeva le loro leggi, o soltanto li imbizzarriva. Rivediamo gli anni, i decenni, i secoli che abbiamo trascorso a sfidare tutto, e quel movimento che abbiamo chiamato progresso ci sembra adesso un reato, un’appropriazione indebita. E dire che siamo stati attenti, accorti, ci siamo autolimitati, contenuti, prevenuti, e il contratto sociale, e la democrazia, e la monogamia, e lo stato di diritto, e le avvertenze prima dell’uso, e i parafulmini, e gli screening, e la divisione dei beni, e le assicurazioni, di tutto, abbiamo inventato di tutto per proteggerci dalla nostra ingordigia, dalla nostra fallibilità, dalla nostra piccolezza, dal caso, dalla iella, per ridurre l’influenza del mondo, che è selvaggio, su di noi, che siamo addomesticati. Il coronavirus sembra averci studiati da vicino, e a lungo, perché non c’è nostra abitudine che non abbia sovvertito, nostra presunzione che non abbia smontato, nostra conquista che non abbia incenerito, nostro alleato che non abbia trasformato in nemico. Ha estremizzato e radicalizzato tutto. Stavamo facendo del contagio una legge di mercato e lui ci ha mandato una pandemia per dimostrarci che di contagio si può morire. Stavamo annoiandoci degli altri e lui ce li ha tolti di torno per farcene sentire la mancanza. Stavamo, come sempre fanno gli uomini, adagiandoci sull’esistente dandolo per scontato, per certo, per immutabile, e infatti ci impegnavamo nella manutenzione e nel perfezionamento, allo scopo di dilatare la nostra vita, e renderla immune dall’imprevisto. Esercitavamo un controllo su tutto: appuntamenti, relazioni, educazione, futuro, procreazione, malattie, morte. E adesso, tutto azzerato? Improbabile. Ma che tutto si stia rifondando, riformulando, rielaborando, è piuttosto difficile da negare. Certo, potrebbe essere una fase momentanea, una correzione da spavento, come quando smettiamo di fumare dopo essere svenuti. Smettiamo per una settimana, due al massimo, poi la paura svanisce e il vizio ritorna. Siamo abitudinari. Il filosofo David Hume ci riprendeva spesso, per questo, e ci avvertiva di non illuderci, di non credere mai che al giorno seguisse la notte per norma: non abituatevi, diceva, perché da un momento all’altro quella sequenza potrebbe saltare, il fatto che sia sempre andata così non significa affatto che sarà sempre così, è soltanto un caso, come in tutto. 

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Non possiamo non dirci pagani. Il coronavirus ci punisce, così diciamo, perché siamo stati tracotanti, asfissianti, prepotenti, esuberanti, eccessivi, assoluti. Abbiamo sperperato, abbiamo peccato di ubris, diciamo così, come quando eravamo al liceo e studiavamo i miti greci e le rappresaglie degli dei e le condanne eterne cui destinavano chi infrangeva le loro leggi, o soltanto li imbizzarriva. Rivediamo gli anni, i decenni, i secoli che abbiamo trascorso a sfidare tutto, e quel movimento che abbiamo chiamato progresso ci sembra adesso un reato, un’appropriazione indebita. E dire che siamo stati attenti, accorti, ci siamo autolimitati, contenuti, prevenuti, e il contratto sociale, e la democrazia, e la monogamia, e lo stato di diritto, e le avvertenze prima dell’uso, e i parafulmini, e gli screening, e la divisione dei beni, e le assicurazioni, di tutto, abbiamo inventato di tutto per proteggerci dalla nostra ingordigia, dalla nostra fallibilità, dalla nostra piccolezza, dal caso, dalla iella, per ridurre l’influenza del mondo, che è selvaggio, su di noi, che siamo addomesticati. Il coronavirus sembra averci studiati da vicino, e a lungo, perché non c’è nostra abitudine che non abbia sovvertito, nostra presunzione che non abbia smontato, nostra conquista che non abbia incenerito, nostro alleato che non abbia trasformato in nemico. Ha estremizzato e radicalizzato tutto. Stavamo facendo del contagio una legge di mercato e lui ci ha mandato una pandemia per dimostrarci che di contagio si può morire. Stavamo annoiandoci degli altri e lui ce li ha tolti di torno per farcene sentire la mancanza. Stavamo, come sempre fanno gli uomini, adagiandoci sull’esistente dandolo per scontato, per certo, per immutabile, e infatti ci impegnavamo nella manutenzione e nel perfezionamento, allo scopo di dilatare la nostra vita, e renderla immune dall’imprevisto. Esercitavamo un controllo su tutto: appuntamenti, relazioni, educazione, futuro, procreazione, malattie, morte. E adesso, tutto azzerato? Improbabile. Ma che tutto si stia rifondando, riformulando, rielaborando, è piuttosto difficile da negare. Certo, potrebbe essere una fase momentanea, una correzione da spavento, come quando smettiamo di fumare dopo essere svenuti. Smettiamo per una settimana, due al massimo, poi la paura svanisce e il vizio ritorna. Siamo abitudinari. Il filosofo David Hume ci riprendeva spesso, per questo, e ci avvertiva di non illuderci, di non credere mai che al giorno seguisse la notte per norma: non abituatevi, diceva, perché da un momento all’altro quella sequenza potrebbe saltare, il fatto che sia sempre andata così non significa affatto che sarà sempre così, è soltanto un caso, come in tutto. 

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Il coronavirus sembra averci studiati da vicino, e a lungo, perché non c’è nostra abitudine che non abbia sovvertito


 

Il coronavirus dà ragione a Hume: non c’è niente, nella nostra vita, che sia certo. Dubita che le stelle siano fuoco, dice Amleto a Ofelia, ma non dubitare del mio amore. E sappiamo poi com’è finita la povera Ofelia. Dell’amore, anche, forse più di tutto, dobbiamo dubitare, e non perché non esista, ma perché finisce, si sgretola nel momento in cui smettiamo di pensarlo vulnerabile e, invece, lo riteniamo invincibile, nel momento in cui pensiamo che sarà per sempre. Questo ci ha detto il coronavirus: non siete invincibili, siete di fatto nullatenenti, siete qua per culo, l’ordine in cui siete inseriti non lo dettate né lo capeggiate voi, non avete modo di difendervi, l’inatteso sta alla vostra sorte come la vita sta alla morte. Il nostro cuore, che è ingannevole più di ogni altra cosa non perché sia un truffatore ma perché è humiano, ha recepito il messaggio e prova nuovi sentimenti, o vecchi sentimenti che credeva di non provare più. Abbiamo nuovi pensieri, e abbiamo nuovi dolori, nuove passioni, nuovi rancori, antichi amori. Sta cambiando il modo in cui reagiamo alla morte, la grande emarginata dai nostri eserciziari su come vivere sani e belli. Stanno cambiando le nostre nevrosi, che prima erano concentrate sull’altro e adesso sono concentrate su di noi, cosa che sta ripercuotendosi sul nostro senso di responsabilità, che credevamo ormai destinato al pensionamento, e che invece adesso siamo chiamati, obbligati a esercitare. Sta azzerandosi la nostra vanità, perché la clausura ci obbliga a fare i conti con chi siamo davvero. Sta cambiando il senso del tempo, della distanza, della mancanza, della nostalgia. Un giochino social che va molto, negli ultimi giorni, è la condivisione di vecchie foto. Notatelo: la maggior parte degli scatti risale al mese scorso, al più tardi all’estate scorsa, quando eravamo liberi senza rendercene conto, e abbracciarci, bere fuori, passeggiare erano tutte azioni ordinarie, che addirittura rifuggivamo con fierezza, dicendo quanto ci piaceva stare in casa, quanto preferivamo Netflix alle feste, e la cosa che più sognavamo era la possibilità di rintanarci nella stanza da letto a mangiare pizza facendo binge watching. Abbiamo letto spesso, a proposito dei millennial, che erano malati di nostalgia, e che il mercato si era adattato molto al loro desiderio di ricordare continuamente di aver vissuto la migliore infanzia possibile, forse l’ultima infanzia autentica dell’umanità, con i cartoni animati ancora solo per bambini e non anche per adulti, e adesso quello che più manca loro è quel presente che, fino a ieri, hanno trascorso a rivangare il passato.

 

Siamo diventati gentili. Con i vicini di casa; con gli operatori telefonici che hanno una voce nuova, e ci consentono di parlare di cose che non hanno a che fare con il coronavirus ma con aggeggi su cui ancora possiamo esercitare un controllo; con gli sconosciuti al supermercato, dove andiamo il più possibile a fare una cosa che prima ci pesava come una consegna di lavoro, e dove c’è la sola possibilità che abbiamo di incontrare facce diverse, di vedere qualcuno fuori da Skype; con la zia lontana che prima, quando ci chiamava, ci risultava sempre invadente e inopportuna, e ora invece è benedetta, cara, dolce, accudente.


Ora che l’isolamento si fa sentire e cantare al balcone non basta più, abbiamo cominciato a inveire contro chi corre per strada


 

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I cinici che prima ci facevano ridere adesso ci fanno arrabbiare, ci sembrano stupidi, vacui, addirittura irresponsabili.

 

Tolleriamo, improvvisamente, i rumori altrui, quella di sopra che cammina in casa con i tacchi ci sembra un’eroica militante della vitalità anziché una maleducata, ci affacciamo per applaudire il bambino del terzo piano che suona il flauto e come sempre lo suona male, producendo un suono che prima ci sembrava infernale e mortifero, e adesso ci dà energia, non rimproveriamo i cantanti da cortile che alle 18, mentre stiamo ancora lavorando, sparano Lucio Battisti a mille watt, una cosa per la quale in altri tempi avremmo chiamato la polizia, pagato un cecchino, rigato una macchina, elaborato piani di vendetta quinquennali. I cantanti da cortile hanno rinvigorito il nostro senso di comunità, e il patriottismo non è più un sentimento destrorso, un’avvisaglia di ritorno del fascismo, ché tanto era tornato da prima, bensì resistenza, coesione, cura del prossimo, forma d’amore. Intellettuali d’oggi con inappuntabili curriculum di sinistra hanno in queste ore ricordato la differenza che tracciò Simone Weil tra l’amor di patria per i nazisti, che era un amore per la grandezza nazionale, e l’amor di patria per gli antinazisti, per i quali esso significava proteggere qualcosa di prezioso e fragile. Nessuna opposizione antipatriarchista è stata mossa, sebbene debellare il patriottismo sia stata una delle urgenze del femminismo recente al punto che Michela Murgia aveva proposto di sostituire la patria con la matria. Anche la sensibilità femminista s’è fatta più essenziale, perché l’emergenza mangia tutto, riduce tutto all’osso, costringe ad attenersi a un codice stretto di priorità. Siamo diventati prioritaristi, noi che pensavamo di avere tutto in pugno, di poter posticipare, di avere più diritti che doveri, di essere eterni. Invece la cronaca ci racconta di letti d’ospedale insufficienti, reparti che collassano, cure che non sono disponibili per tutti, e noi che al massimo ci sforzavamo di fare la raccolta differenziata in previsione di un futuro nel quale gli esseri umani avrebbero dovuto razionare la plastica e sostituire la pasta con gli insetti, ci ritroviamo scaraventati in un presente nel quale i medici potrebbero rifiutarsi di curare nostra nonna, senza per questo commettere un reato, ma rispondendo a un ordine di priorità. Fauni Marino, scrittrice, ha scritto su Twitter che stiamo rinunciando alla nostra vita per salvare dei vecchi, ed è stata coperta di insulti. Tuttavia, il disastro sanitario che ogni giorno si aggrava ci mette davanti agli occhi come nel mondo sia in atto una portentosa, crudele, molto sommaria selezione naturale. Viene curato chi ha più possibilità di sopravvivere, chi ha più tempo da vivere. Le storie spaventose dell’Italia del primo Novecento, quando non c’era madre che non avesse perso almeno un figlio, per una febbre, per la guerra, per un parto fatto male, ci rimbombano in testa, in un lampo le sentiamo vicine, mentre prima erano libri, polvere, memoria. Non ce ne capacitiamo. 


Abbiamo nuovi pensieri, e abbiamo nuovi dolori, nuove passioni, nuovi rancori, antichi amori. Siamo concentrati su di noi


 

Davanti alla morte siamo del tutto disorientati, erano anni che non la vedevamo, che non l’affrontavamo, che la mettevamo da parte. I dottori, gli stessi che prima ci sembravano algidi, inumani, insensibili al punto che rinunciavamo volentieri a loro per rivolgerci invece a chiropratici, omeopatici e stregoni dei tutorial, ci confidano il loro sconforto, scrivono sui giornali lunghe lettere nelle quali ci raccontano a cosa pensano mentre vanno a lavorare, manifestano su Facebook tutto il loro dolore, fotografano pazienti in fin di vita e ce li mostrano e ce ne dicono la morte come farebbe uno scrittore.

 

“I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente li può assistere e quando stanno per andarsene lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. E’ come se stessero annegando, ma con tutto il tempo di capirlo. L’ultimo è stato stanotte. Lei era una nonnina, voleva vedere la nipote. Ho tirato fuori il telefonino e gliel’ho chiamata in video. Si sono salutate. Poco dopo se n’è andata. Ormai ho un lungo elenco di videochiamate. La chiamo lista dell’addio”. Così ha scritto un anestesista su Facebook. Infermieri, rianimatori, dottori, ci rivelano come si muore, quanto sono impotenti, e lo fanno con una pietas e uno stupore e una ricchezza di dettagli romanzesca, una specie di genere letterario nuovo, un dolciastro funerario. E’ come se facessimo tutti, per la prima volta, i conti con la morte, come se ci rendessimo conto adesso che toccherà a tutti, che non risparmierà nessuno, che non possiamo prevederla, che è un destino scritto in stelle illeggibili, invisibili. Per reazione, forse, abbiamo forgiato un ottimismo della non ragione, e ci ostiniamo a far disegnare ai bambini arcobaleni che appendiamo alle porte, nostre e dei vicini, e ripetiamo che andrà tutto bene, lo ripetiamo come un mantra, perché non abbiamo altri amuleti e altre cure che le parole, perché non possiamo fare altro che chiacchierare, parlare tra noi per farci compagnia, per far passare la quarantena, per sentirci un po’ utili. Abbiamo un bisogno disperato di fare la nostra parte, ma non possiamo far altro che stare in casa, e stare in casa non produce effetti visibili, almeno non ancora, e quando li produrrà saranno solo numeri, e niente è più insostenibile, per noi, abituati alle evidenze, per noi che se una cosa non si può fotografare non esiste, di non poter produrre. Per questo, da qualche giorno, ora che l’isolamento si fa sentire e cantare al balcone non basta più, ora che i buoni sentimenti non ci appagano più, abbiamo cominciato a inveire contro chi corre, contro chi va a fare la spesa un po’ troppe volte, contro quelli che vengono beccati a fare passeggiate non essenziali; li insultiamo sui social come prima insultavamo i politici, li additiamo come fossero untori, scarichiamo su di loro tutte le colpe, scarichiamo quel peso che ci eravamo ripromessi di caricarci solo sulle nostre spalle, quel sacco pieno di pentimento e accettazione del castigo. Ci appostiamo ai nostri balconi e passiamo i pomeriggi a individuare possibili fuorilegge per chiamare i carabinieri e farli punire, condividiamo Vincenzo De Luca che si rammarica del fatto che “in occidente non esistono metodi terapeutici come la fucilazione” per mantenere l’ordine pubblico e punire chi sgarra. Ammiriamo la Cina. Ammiriamo le dittature. 


Davanti alla morte siamo del tutto disorientati, erano anni che non la vedevamo, che non l’affrontavamo, che la mettevamo da parte 


 

Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale, ha scritto: “La prima settimana di quarantena gli italiani l’hanno trascorsa a cantare dai balconi, a dirsi stiamo uniti. La seconda, invece, a chiamare la polizia, a segnalare quelli che corrono o vanno in bicicletta. E’ la nostra nuova vita da schizofrenici”. Diventerà forse un altro nuovo sentimento, la schizofrenia, o ci abitueremo a oscillare, a non avere certezze, a restare disorientare, a piangere al mattino e ridere alla sera, fino a quando non potremo “tornare a sbranarci, e assaporare i momenti, dimenticati e sommersi dalle vite degli altri”. Questa è una canzone di un disco che si chiama “Fidatevi”. Ascoltatelo. E fidatevi.

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